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Com'è il lavoro a 5 stelle?

Redazione

Reddito di cittadinanza e dirigismo. Girotondo di opinioni sul programma di governo grillino

Le riforme tra candore e realtà

Il commento di Elsa Fornero, economista all’Università di Torino ed ex ministro del Lavoro

 

La cosa che più mi ha colpita nel leggere il documento sul lavoro scritto da Pasquale Tridico è il “candore” di fondo su cui poggia la fiducia nell’efficacia delle soluzioni proposte. Anzi, debbo correggermi: efficacia è un biasimevole termine economico, privo di buoni sentimenti, mentre nel linguaggio di oggi dovremmo dire la fiducia “nella capacità di risolvere i problemi dei cittadini”. Come se bastasse una legge “giusta”, come se chi ci ha provato in passato (da Treu a Biagi, da Sacconi a Renzi, passando per la sottoscritta) non mirasse egualmente a perseguire il bene dei cittadini, aumentando e stabilizzando l’occupazione; come se le politiche per facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (con l’apprendistato) e il reinserimento di chi ha l’ha perso (con politiche attive, formazione permanente, certificazione) si proponessero chissà quali oscuri disegni. Come se i problemi dei cittadini fossero distribuiti uniformemente e non invece spesso in conflitto di interessi, anche tra le diverse generazioni.

 

Intendiamoci, gli obiettivi indicati sono (quasi) tutti buoni in sé: l’introduzione di un reddito minimo (chiamato di “cittadinanza” senza che lo sia e che, nella descrizione delle condizioni per ottenerlo, sembra molto simile a quello attuale “di inserimento”, anche se più esteso); gli investimenti in settori ad alta intensità di lavoro e, ovviamente, di lavoro produttivo (gli economisti “senza cuore” parlerebbero di alto “valore aggiunto”), che richiedono indubbiamente snellezza di procedure, ma anche minore corruzione ; il salario orario minimo per combattere lo sfruttamento e quindi, indirettamente, gli imprenditori disonesti che se ne avvalgono, ma che potrebbe anche mettere fuori mercato molti imprenditori onesti; il patto di produttività programmato tra lavoratori (sindacati?), governo e imprese (sulla scia del recente accordo Confindustria-sindacati?) e, da ultimo, la gestione “politica” della robotizzazione, con la riduzione di orario a parità di salario. Avrei aggiunto la cancellazione del gap occupazionale e retributivo di genere, ma non si può avere tutto.

 

All’elenco si possono naturalmente fare molte obiezioni in termini finanziari: mancano le risorse e i modi in cui si propone di superare il problema faranno verosimilmente aumentare il debito, e conseguentemente il rischio paese. E i rischi finanziari possono aumentare in modo repentino e condurre a brusche frenate, com’è già successo nel 1992 e nel 2011. Ma non è questa l’obiezione che voglio fare. La mia obiezione sta piuttosto nella sottostante visione delle riforme, come una sorta di toccasana che una volta uscito dal Parlamento produce risultati immediati. Non è così: le riforme sono un processo complesso non tanto dal punto di vista tecnico quanto dal punto di vista sociale. Le riforme sono fatte per cambiare atteggiamenti, aspettative, convinzioni, comportamenti. Dei cittadini, delle imprese, delle istituzioni, incluso l’apparato burocratico dello stato. Senza questi cambiamenti anche le migliori riforme appassiscono o creano immediato scontento, richieste di modifiche, nuove riforme, cambi di governo, in un circolo vizioso già troppe volte sperimentato dal paese.

 

Forse cambieremo davvero quando avremo un governo che anziché promettere soluzioni di rottura per problemi antichi dicesse pacatamente “cerchiamo di far funzionare meglio ciò che già c’è e di correggere ciò che non funziona”. Una piccola ricetta che però presuppone una coesione e un senso istituzionale non molto presenti nel nostro paese e certamente assenti nella campagna elettorale e in questi primi giorni dopo il voto.

Un approccio lisergico-keynesiano

Il commento di Mario Seminerio, investitore professionale

  

Uno dei punti qualificanti delle elaborazioni del M5s in materia di politica del lavoro è quello espresso dal ministro in pectore, Pasquale Tridico, che vorrebbe far iscrivere al collocamento almeno un milione di inattivi scoraggiati, aumentando in tal modo il tasso di disoccupazione e l’output gap, cioè la distanza tra Pil potenziale ed effettivo, ed ottenere per questa via (secondo lui) la possibilità di far più deficit per circa 19 miliardi. Un vero magheggio, considerato che il costo del reddito di cittadinanza è stato quantificato dai grillini in 17 miliardi, e che servono anche 2 miliardi per potenziare i centri per l’impiego, ecco che magicamente l’operazione sarebbe interamente “autofinanziata”, nel senso di ulteriore deficit. Cioè, basta pagare gli scoraggiati per iscriversi al collocamento e frequentare dei fantomatici e taumaturgici corsi di formazione, ed ecco tanti bei soldini a deficit. E’ l’uovo di Colombo, un capolavoro di reverse engineering: ridurre “per legge” (e sussidio) gli scoraggiati e sperare che i medesimi riescano a reimpiegarsi. La cosa più suggestiva è che è lo stesso Tridico a non credere alle virtù del collocamento: egli ha recentemente replicato alle mie obiezioni dichiarando candidamente che “la nostra idea implica l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro, ma non è necessario il collocamento. Il riassorbimento dei disoccupati non deriverebbe tanto da ‘collocamento e formazione’, bensì dal maggior deficit strutturale consentito al governo che stimolerebbe la domanda aggregata e di conseguenza l’occupazione: la riattivazione degli scoraggiati sarebbe incentivata, oltre che dal sussidio, dalla ‘prospettiva occupazionale’ connessa all’attuazione di politiche espansive, non tanto dalla maggiore impiegabilità che deriverebbe dai corsi di aggiornamento”.

In sintesi e in soldoni, basta fare più deficit e gli inoccupabili per profilo professionale inadeguato cesserebbero di essere tali, perché la vibrante ripresa indotta dal reddito di cittadinanza riassorbirebbe la disoccupazione. Qui si nota l’approccio lisergico keynesiano (sperando che lo spirito di Keynes non se ne abbia a male), in base al quale tutto è superabile con un impulso fiscale espansivo, che per definizione avrebbe un moltiplicatore stellare. Che poi è l’essenza del populismo: proiettili d’argento per problemi complessi. La bolla italiana si sta gonfiando, occhio allo scoppio.

Il non detto del programma: articolo 18

Il commento di Pietro Ichino, giuslavorista alla Università di Milano e senatore Pd

 

Nel programma del M5s in materia di politica del lavoro salta all’occhio un eccesso di statalismo: allo stato si affida il compito di incrementare direttamente la domanda di lavoro con gli investimenti pubblici; dallo stato le imprese, particolarmente quelle meridionali, devono aspettarsi i finanziamenti per i propri investimenti attraverso una apposita “banca pubblica”; sulle strutture pubbliche e soltanto su di esse si punta, con un investimento di due miliardi, per migliorare i servizi a lavoratori e imprese che si cercano nel mercato; e, soprattutto, su di uno “Stato mamma” molto generoso – e non su di una assicurazione, fondata sui contributi versati – tutti devono poter contare, secondo il M5s, per 800 euro al mese esentasse, finché il lavoro non si trova.

 

In questo programma, però, non va sottovalutato il “non detto”, quello che in esso non si trova. Sorprendentemente, il M5s non propone di smontare la riforma del lavoro del 2015, e tanto meno quella del 2012. Il vecchio articolo 18, la bandiera della sinistra-sinistra, non è menzionato da nessuna parte. Questa omissione può non colpire il cittadino comune; ma non può non saltare all’occhio di chi abbia avuto la ventura di sorbirsi negli ultimi tre anni, in Commissione e in Aula, gli interventi infuocati del senatore Puglia e della senatrice Paglini contro ciascuno dei passaggi della riscrittura del diritto del lavoro che la maggioranza di centrosinistra andava compiendo.

 

La realtà è che su questo punto, nel corso dell’ultima legislatura, si è determinata una divergenza tra i parlamentari del M5s: erano in molti a concordare, pur non dicendolo apertamente, con la capogruppo alla Camera Roberta Lombardi, la quale sosteneva apertamente le buone ragioni della riforma dei licenziamenti realizzata tra il 2012 e il 2015. E quando si è trattato di mettere nero su bianco il programma elettorale gli strateghi del movimento hanno evidentemente ritenuto che su questo punto non fosse il caso di promettere ritorni all’indietro. Della sinistra-sinistra, dunque, il M5s sembra avere accettato soltanto metà dell’eredità programmatica: quella dello statalismo, di un forte intervento pubblico nell’economia. Ma non la metà che punta principalmente su avvocati e giudici per la promozione del benessere dei lavoratori. Se è davvero così, questa è una buona notizia per il Jobs Act: oggi in Parlamento, dopo tante proteste, a volerlo smantellare ci sono soltanto i quattordici deputati e i quattro senatori di Leu.

Finalmente un programma antiliberista

Il commento di Stefano Fassina, deputato Liberi e uguali

 

Sul lavoro, l’agenda abbozzata dal prof. Tridico va nella direzione giusta, nel contesto del programma economico completato dalle proposte dei prof indicati al Mef (Andrea Roventini) e al Mise (Lorenzo Fioramonti). Finalmente, viene riconosciuto che quantità e qualità di lavoro sono problemi essenzialmente macroeconomici, non micro. Vuol dire che dipendono dal livello dell’attività produttiva, non dalla “flessibilità”, newspeak liberista per nascondere la precarizzazione. Vuol dire che per promuovere piena e buona occupazione va azionata la leva della domanda interna, sacrificata dalle politiche mercantiliste dell’eurozona. E’ impianto keynesiano, opposto a quello liberista sbandierato da Veltroni-Ichino al Lingotto e poi finito nel Jobs Act. E’ mortificante per chi viene da sinistra constatare la necessità dell’avvento del M5s per una lettura adeguata sul punto distintivo, cardinale, del lavoro. Nel merito:

 

1) il “reddito di cittadinanza”, versione allargata (per beneficiari) e innalzata (per importi) del Rei, è un istituto lavorista, non assistenzialista come raccontato, quindi condivisibile. Purtroppo, il problema delle coperture non può essere aggirato con l’ampliamento del Pil potenziale. Oltre al Pil potenziale, rivela ahinoi il debito pubblico effettivo;

 

2) gli investimenti pubblici, in particolare nel Mezzogiorno, sono la variabile chiave. La riserva del 34 per cento al sud è insufficiente. Noi abbiamo proposto la “clausola Ciampi”, ossia il 45 per cento di tutti gli investimenti pubblici alle regioni meridionali, accompagnati da assunzioni mirate nelle pubbliche amministrazioni. Condividiamo la necessità di una politica industriale discrezionale, ma manca una holding pubblica di orientamento dei piani industriali delle aziende partecipate dallo Stato. La decontribuzione selettiva per le aziende private è insufficiente;

 

3) il salario orario minimo va chiarito. Può essere strumento di dumping sociale. Va definito come compenso orario minimo, “equo compenso” dedicato alle attività autonome e professionali, non al lavoro subordinato al quale si devono applicare i contratti nazionali collettivi;

 

4) fondamentale la valorizzazione del dialogo sociale nel “patto di produttività programmata”, ma anche qui i dettagli sono decisivi per evitare di ricadere nel fallace mantra liberista che scarica la responsabilità della produttività totale sulla produttività dei lavoratori nella dimensione aziendale, invece che sugli investimenti e sui fattori di contesto;

 

5) pienamente condivisibile, era nel programma di Leu, l’accenno all’obiettivo strategico della redistribuzione dei tempi di lavoro.

Cinque idee ambigue (o antistoriche)

Il commento di Filippo Taddei, economista alla Johns Hopkins University

 

In politica esiste il confronto, il dissenso, perfino la polemica. Qualunque scelta si faccia, bisogna però essere chiari. Le idee sul lavoro di Tridico sul blog a Cinque stelle sono invece una combinazione tra ambiguità di finanza pubblica ed incomprensione di quello che è cambiato nel mercato del lavoro italiano in questi anni. Potrebbe trovarsi molto più in linea col Pd di quanto non sospetti. Quando abbiamo scritto il Jobs act e quel che ne è seguito, dal 2014 al 2017, ci siamo chiesti ossessivamente come sostenere il lavoro nell’Italia di oggi, non in quella delle nostre credenze. Molto brevemente: abbiamo riconosciuto che, nella realtà del mercato del lavoro italiano, i lavoratori sono già molto più mobili di quanto pensiamo, con anzianità media inferiori ai 6 anni anche nelle imprese con più di 15 addetti. Di fronte a carriere lavorative molto più saltuarie abbiamo ritenuto che il modo più efficace di tutelare le fragilità dei lavoratori nella mobilità era rendere più mobile anche la tutela, spostandola dal posto di lavoro a tutte le fasi del mercato del lavoro.

 

La prima idea di Tridico è tanto ambigua nei suoi effetti quanto discutibile nella sostanza. In breve, sostiene che il reddito di cittadinanza potrebbe permettere la riattivazione di 1 milione di lavoratori che, aumenterebbe il livello di reddito potenziale. La spesa per riattivarli non aumenterebbe il deficit (strutturale) perché il reddito potenziale crescerebbe. Aumenterebbero però certamente il deficit e il debito effettivo (quello vero, non potenziale). E’ un po’ come rassicurare la banca che vede il nostro debito aumentare rivendicando il reddito che si potrebbe avere (potenziale) invece di quello (effettivo) che si possiede. Probabilmente, in questa nuova fase politica, vale la pena superare l’ambiguità e chiamare le cose col loro nome. Si vogliono spendere un ammontare di risorse senza precedenti (19 miliardi), farlo a debito, e sperare che questo abbia un effetto clamoroso per cui non c’è evidenza: riportare cioè 1 milione di persone nel mercato del lavoro, neanche necessariamente al lavoro.

 

La seconda, quella di fare investimenti produttivi nei settori più capaci di creare occupazione, non è una proposta ma un desiderio che cela una piccola contraddizione. Tutti sappiamo quanto la nostra Pa sia incapace di attivare in tempi brevi investimenti pubblici.

 

La terza, il salario minimo orario, è una proposta del Pd, già nella legge delega che ha istituito il Jobs Act e inattuata per una (erronea) scelta del Pd, vittima di un malinteso desiderio di “non svilire la contrattazione sindacale”.

 

La quarta, quella del patto di produttività, non è altro che la continuazione della combinazione di due provvedimenti del governo del Pd: industria 4.0 e detassazione permanente di premi di produttività per tutti i lavori che guadagnano fino a 55 mila euro lordi.

 

La quinta, quella di affrontare la robotizzazione con la riduzione dell’orario a parità di salario, è semplicemente antistorica perché inverte la causa con l’effetto. La storia del capitalismo, dopo la fase primordiale, è fatta di riduzione dell’orario di lavoro raggiunta attraverso la contrattazione, in cui la legge ha un ruolo residuale. Perfino l’ultimo tentativo concreto in questo senso, quello dei metalmeccanici tedeschi, è una iniziativa nata dalla contrattazione.

 

Il dibattito pubblico è caratterizzato da una profonda confusione tra la serietà dei problemi che viviamo e la velocità con cui questi cambiano. Chi si candida a risolverli non può nutrire la stessa ambiguità.

Lavorare tutti e meno per produrre di più

Il commento di Domenico De Masi, sociologo alla Sapienza Università di Roma

 

Partiamo dai dati. Nel 1991 gli italiani erano 57 milioni e lavorarono 60 miliardi di ore; nel 2017 erano 61 milioni e hanno lavorato 40 miliardi di ore. Rispetto a ventisei anni fa, produciamo 500 miliardi di Pil in più. Ciò significa che abbiamo imparato a produrre molti più beni e servizi con molto meno lavoro. E questo si chiama progresso. In Germania hanno fatto ancora meglio: se un italiano lavora in media 1.725 ore all’anno, un tedesco ne lavora 1.371 (e nel calcolo non sono compresi i mini job). Ma il Pil pro-capite in Germania è di 41.701 euro e in Italia è di 30.532 euro. Praticamente, lavorando il 20 per cento in meno, un tedesco produce il 20 per cento in più di un italiano. Non basta: il sindacato IG Metall ha appena firmato (senza neppure un’ora di sciopero) un accordo pilota con le aziende metalmeccaniche secondo cui tutti i lavoratori che lo desiderano, a partire dal prossimo anno, possono lavorare 28 ore a settimana. Intanto il loro stipendio è stato aumentato del 4,3 per cento. Se in Italia si lavorasse 1.371 ore come in Germania avremmo 6 milioni di posti di lavoro in più e, al posto degli attuali 23 milioni di occupati, ne avremmo 29 milioni.

 

Un punto centrale nell’articolo di Tridico è la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Però questo modo serio per aumentare l’occupazione si scontra con la bassa produttività italiana, altro punto centrale nell’articolo di Tridico. Un patto di produttività tra lavoratori, governo e imprese è indispensabile ma occorre tenere presenti due condizioni: 1) perché i lavoratori partecipino seriamente a questo patto, occorre che, come in Germania, partecipino alla direzione dell’impresa. 2) In assenza di partecipazione, la produttività dipende esclusivamente dalle scelte tecnologiche e organizzative effettuate dagli imprenditori e dai manager. In Italia queste due categorie hanno chiuso da anni le loro scuole di formazione (Marentino della Fiat, Reis Romoli della Telecom, ecc.) e dunque occorre aggiornare la loro obsoleta professionalità recuperando il tempo sciaguratamente perduto.

 

Un terzo punto centrale nell’articolo di Tridico è il reddito di cittadinanza. Un tempo il lavoratore entrava in azienda da giovane e ne usciva pensionato. Oggi la sua esperienza lavorativa è fatta di spezzoni di formazione e di lavoro alternati con fasi di ricerca del nuovo lavoro. Di qui la necessità di un aiuto da parte dello stato nei periodi di disoccupazione, aiuto che ha il carattere di urgenza perché si riferisce a un momento di eccezionale bisogno. Ogni operazione connessa a questo servizio (accertare se il disoccupato si impegna nella ricerca del lavoro, formarlo per nuovi lavori, ecc.) richiede uffici e funzionari capaci di intrattenere con il lavoratore rapporti di controllo, formazione e reintegro. Attualmente questo apparato burocratico, efficiente e capillare in Germania, è praticamente inesistente nel nostro paese e richiede almeno 3-4 anni per essere approntato seriamente.

 

Altrettanto importanti, nell’articolo di Tridico, sono il salario minimo e l’industria 4.0 ma ho già superato lo spazio che mi è stato assegnato. Di sicuro esiste un ritardo ingiustificabile su tutti questi punti ed è urgente che il prossimo governo, qualunque esso sia, se ne faccia carico urgentemente e prioritariamente.

Ok su un punto, molte perplessità sul resto

Il commento di Luigi Marattin, economista Pd

 

Dei cinque punti concordo solo sul salario minimo, che era presente anche nel programma del Pd. Gli altri mi lasciano un po’ perplesso. Trovo in particolare molto stravagante l’idea che il reddito di cittadinanza possa autofinanziarsi tramite il meccanismo esposto (più gente cercherà lavoro, aumento del tasso di partecipazione, aumento del lavoro potenziale, aumento del Pil potenziale, aumento dell’output gap e quindi del deficit consentito).

 

La stima del lavoro potenziale (a sua volta parte della stima dell’output gap) non si basa solo sul tasso di partecipazione, ma su una serie di altre variabili, tra cui il tasso naturale di disoccupazione. Un massiccio passaggio da inattivi ad attivi – che il prof. Tridico ritiene sia conseguente all’introduzione del reddito di cittadinanza – determina un automatico aumento del tasso di disoccupazione, almeno finché costoro non troveranno lavoro. E questo a sua volta influisce sulla stima del tasso naturale di disoccupazione, aumentandolo. E quindi diminuendo il lavoro potenziale, il Pil potenziale, l’output gap e il deficit consentito. Questo effetto – nella migliore delle ipotesi – compenserebbe completamente qualsiasi beneficio sull’output gap derivante dall’aumento della forza lavoro.

 

Viene poi proposto di destinare il 34 per cento degli “investimenti produttivi dello Stato” al Sud. Personalmente non concordo. Non credo infatti che gli investimenti al Sud debbano diminuire. Sarebbe bastata una semplice occhiata ai Conti Pubblici Territoriali per vedere che nel 2016 (ultimo dato disponibile) la quota percentuale di spese di investimento della pubblica amministrazione nel Mezzogiorno è il 41,1 per cento. Rimango poi veramente perplesso sul quarto punto, il “Patto di produttività programmato tra lavoratori, governo e imprese”. A detta del prof. Tridico, tale non-meglio-specificato Patto servirebbe a evitare che le imprese “ignorino gli investimenti capital-intensive in settori ad alto contenuto tecnologico come accaduto in questi anni”. Questo ragionamento sembra ignorare che con il piano Impresa 4.0 negli ultimi due anni abbiamo invece assistito a un incremento a due cifre del tasso di investimento in macchinari ad alto contenuto tecnologico. Come può testimoniare chiunque negli ultimi mesi abbia messo piede in un’azienda. Devo confessare poi di aver provato un brivido di autentico terrore quando ho letto della necessità di gestire “politicamente” la robotizzazione. In attesa – in preoccupata attesa – di capire cosa diavolo ciò voglia dire, mi limito a dire la mia. L’automazione dei processi produttivi (anch’essa in corso da svariati anni nelle nostre fabbriche) non richiede né leggende sulla “fine del lavoro” né riduzioni dell’orario di lavoro. Richiede invece un investimento straordinario sulla formazione dei lavoratori, sia sul versante pubblico (come si è iniziato a fare con la rivoluzione delle nuove politiche attive) sia su quello privato (con il massiccio credito di imposta per la spese di formazione dei lavoratori, contenuto nella Legge di Bilancio 2018).

Decrescita felice e statalismo

Il commento di Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia

 

Il mercato del lavoro in Italia oggi è il risultato di un quinquennio di politiche del lavoro che non hanno saputo sfruttare la flebile ripresa economica in atto a livello globale, e che sono intervenute con confusi e costosi provvedimenti (Jobs Act e decontribuzioni). Il tasso di occupazione è rimasto basso, la disoccupazione stabile sopra l’11%, i giovani sono scoraggiati, i salari stagnanti. Il lavoro è al centro della prossima legislatura.

 

Il centrodestra ha presentato una cassetta degli attrezzi che si fonda su assunzioni per giovani a zero costo per i primi 6 anni, massima semplificazione dell’apprendistato, piano delle competenze per un capitale umano più elevato, intervento immediato di favore sul salario di produttività, e una riforma del sistema fiscale per accrescere la quota di salario e la domanda interna.

 

L’Italia oggi non ha bisogno di avventurosi programmi su questi temi. Non esiste l’ennesima lotta alla precarizzazione che il Movimento 5 stelle propone con nuovi limiti al contratto a tempo determinato e l’istituzione di una indennità penalizzante di fine rapporto. Né meno che mai con la reintroduzione dell’articolo 18, più volte fatta balenare. Sono regolazioni dannose che producono disoccupazione, sommerso, bassa crescita delle imprese e che ci farebbero ripiombare indietro negli anni. E’ necessario ridurre il carico fiscale sul costo del lavoro, soprattutto per i giovani e per un periodo più lungo. Non serve perdere tempo sull’istituzione del salario minimo o sulla riduzione dell’orario a parità di salario per dare dignità al lavoro e più soldi alle persone.

 

Occorre, invece, aiutare la contrattazione di secondo livello mentre si sviluppa la rivoluzione fiscale della flat tax che modificherà sostanzialmente i comportamenti contrattuali, in meglio. L’innovazione tecnologica delle imprese si affronta con più formazione, un piano delle competenze nazionali, una remunerazione legata ai risultati, non con la paura della perdita di posti di lavoro (che è tutta da dimostrare) e quindi politiche di solidarietà difensiva.

  

Il lavoro è strumento di dignità delle persone. Per questo dobbiamo avere politiche che creano opportunità, che attirano investimenti, e dunque lavoro, specialmente nel Mezzogiorno. Non vi è bisogno di una misura così dannosa come il reddito di cittadinanza che non ha nulla a che fare con il lavoro, che serve solo a promettere facili illusioni, e che peraltro è costruito su uno schema novecentesco, fondato sui centri per l’impiego, sull’accettazione di un’offerta di lavoro non troppo scomoda e su un generico impegno formativo. Senza dimenticare il costo per lo Stato, con risorse che potrebbero essere utilmente impegnate altrove.

 

Infine, di patti con le parti sociali su produttività crescita e lavoro è lastricata la strada delle relazioni industriali di questo Paese, ed è certamente importante che ci sia un dialogo sociale in Italia per la crescita e la coesione. Ma il Patto implica uno scambio e una visione. Il Patto della Fabbrica appena firmato introduce l’idea dell’Italia che ha come obiettivo di divenire la prima potenza industriale in Europa. Quello enunciato dal M5s appare esattamente il contrario, ispirato alla decrescita felice, al reddito di cittadinanza, alla rigida e barocca regolazione dello Stato. No grazie.

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