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Una fogliata di libri - overbooking

Se lo scrittore punta sull'intensità emotiva

Antonio Gurrado

I firmatari di un appello apparso su Libérations sottolineano che “genocidio” non è uno slogan, ma serve a definire precisamente ciò che accade. Eppure, la parola rischia di creare più confusione di quanta prometta di fugarne

Non è in discussione la qualità degli autori francofoni che hanno firmato l’appello apparso la scorsa settimana su Libération; è anzi quasi fastidiosa l’insistenza con cui si sottolinea la presenza, fra i firmatari, di due Nobel per la letteratura, poi saliti a quattro, come se il premio conferisse chissà quale autorità morale per chiedere il cessate il fuoco, manco fosse il Nobel per la pace. Da una prospettiva strettamente letteraria, conta invece che centinaia di scrittori abbiano firmato un appello imperniato sull’utilizzo di una parola: “Nous ne pouvons plus nous contenter du mot horreur, il faut aujourd’hui nommer le génocide à Gaza”. Poiché l’unico compito degli scrittori è di scegliere le parole, ha senso calibrare questo appello non sull’ennesimo richiamo umanitario astratto (che vale tanto quanto una story “All eyes on Gaza” su Instagram), bensì sulla rivendicazione della libertà di servirsi di una parola al posto di un’altra, “genocidio” anziché “orrore”.

Qual è la ragione di questa scelta lessicale? I firmatari sottolineano che “genocidio” non è uno slogan, bensì serve a definire precisamente ciò che accade, col suffragio di Amnesty International e Human Rights Watch. E’ risaputo tuttavia che storici e giuristi sono molto restii all’applicazione del termine genocidio alla guerra in Terrasanta (autorevole cautela è stata espressa in Italia da Liliana Segre, Marcello Flores e, sul Foglio del 31 maggio, da Adriano Sofri): la parola rischia di creare più confusione di quanta prometta di fugarne. Il senso dell’appello va dunque cercato nell’altra metà della frase, la parte in cui gli scrittori dicono di non potersi più accontentare della parola “orrore”. Perché? Non è abbastanza forte e universale? Probabilmente, se sembra avere perso di senso, è perché il mestiere dello scrittore vira sempre più verso l’appello alla parte più sentimentale e istintiva dei lettori, come se nello stagno del loro cuore ogni parola dovesse essere un sasso sempre più grosso, che causi ondate sempre più ampie. Ciò che però si guadagna in intensità emotiva spesso si perde in precisione terminologica; uno scrittore dovrebbe saperlo, anche se animato dalle migliori intenzioni.
 

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