
Foto ANSA
una fogliata di libri
Martin Amis va letto tutto, e poi da capo
Dalle armi nucleari a noi stessi. “I mostri di Einstein” raccoglie cinque racconti, uno più bello dell’altro, in cui il tema né si erge né fa ombra alla pagina schiacciando il racconto ma (al contrario) lo genera
“I racconti che seguono sono stati scritti al solito scopo, ovvero, senza alcuno scopo”. Alla seconda riga dell’introduzione a “I mostri di Einstein” (Einaudi, 106 pp., 16 euro) Martin Amis fa già scuola di scrittura. La raccolta di racconti uscì nel 1987 e l’editore la definisce preapocalittica, giacché Amis non si dimostrava interessato a ciò cui erano (e sono) interessati tutti – la lagna visionario-melodrammatica del distopico ha già saturato scaffali e programmi editoriali del prossimo quinquennio – ma al contrario, per nostra fortuna, conscio della lezione di tanto Novecento, in questi cinque testi era attratto da tutt’altro: dall’attesa. E da quell’incombente minaccia che non si realizza ma che potrebbe, da un momento all’altro. Dalla sospensione della razionalità che stava dietro al concetto di deterrenza. Dal grottesco di una vita, in bilico su un equilibrio che poggiava sull’assurdo. “Sono nato il 25 agosto 1949”, scrive Amis. “Quattro giorni più tardi i sovietici testarono con successo la loro prima bomba atomica e la deterrenza ebbe inizio, quindi ho avuto quattro giorni senza preoccupazioni, più di quanto ne abbiano mai avuti quelli più giovani di me”.
Premesse che sono promesse. E, nel caso di Amis, sempre mantenute: cinque racconti uno più bello dell’altro, in cui il tema né si erge né fa ombra alla pagina schiacciando il racconto ma, al contrario, lo genera, restando sullo sfondo e soggiacendo a variazioni e modulazioni una più laterale dell’altra – e mai comizio, zero autofiction, nessun dogmatismo o filastrocca sottestuale del tipo “ideologia, ideologia, per piccina che tu sia”, ma personaggi, cose, situazioni, vita, e lingua per raccontare. E non un dialogo che suoni falso, al punto che sembra sempre di starsene lì, tra gente che parla, immersi nel suono con cui parla; eppure la pagina di Amis è sempre, nel senso pregevole della parola, assai letteraria – cesellata, minerale, tattile. Domanda: come faceva? Risposta: lo faceva. Come Maradona.
“I mostri di Einstein”, chiarisce Amis sempre nell’introduzione, “si riferisce alle armi nucleari, ma anche a noi stessi. Siamo mostri di Einstein, non del tutto umani, almeno per il momento”. Il racconto che più di altri meriterebbe la cornicetta è “Buljak e la forza forte o Il dado di Dio” – dichiarato il debito verso Saul Bellow. E’ la storia di un erculeo polacco che non sceglie la vendetta, come, a un certo punto, dopo anni, l’io che dice io nel racconto si sarebbe aspettato. Quando gliene chiede conto, la risposta di Buljak è inattesa. E suona più o meno come: non mi sono vendicato perché il mondo fa già schifo abbastanza e se lo vogliamo migliorare qualcuno dovrà fare il primo passo, no?
Così, in mezzo alla descrizione di quest’uomo roccioso, irruento, combattente a Varsavia nel 1939, orfano di padre e orbato dei fratelli nel vile massacro russo di Katyn’, partigiano e torturatore, piegatore di sbarre e scaricatore di porto (tutti alibi, questi, per girare intorno alla vita con una prospettiva diversa dalla propria, in fondo è questa la definizione di chi è e di cosa fa uno scrittore) fili di perle buttati lì con la noncuranza della grande scrittura, quella che non rende conto di sé stessa ma esiste e basta, quasi fosse increata.
“In fondo”, scrive Amis, “la felicità è una condizione un po’ clownesca, se ci si pensa. La felicità non stop non mi sembra una risposta adeguata alla vita”. Martin Amis va letto tutto, dalla prima all’ultima riga e poi da capo.