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Una fogliata di libri - Overbooking

Così a Cracovia ho scoperto di non sapere niente

Antonio Gurrado

In Polonia i libri cercano di parlarmi dalle bancarelle: non li capisco, mi sento un analfabeta. Resta lo schema ma svanisce il senso. Un'esperienza che mi induce a riflettere sulla limitatezza della conoscenza umana

Invano i libri cercano di parlarmi, dalle bancarelle di Cracovia: sulle loro copertine le parole risultano soffocati vagiti, in un trionfo di segni diacritici piovuti da un universo linguistico parallelo. Devo ridurmi alla condizione di analfabeta, che guarda le figure per sbirciare un po’ del contenuto inattingibile (due che si baciano; un aereo che bombarda; più misteriosa, una scarpa) e viceversa riduco il libro alla condizione di oggetto, coincidente con l’estensione: sulle bancarelle di Cracovia vanno molto libricini grandi quanto il palmo di una mano, copertina sottile e colori sgargianti, ciò che in Italia potrebbe indurmi a una sommaria recensione preventiva, ma in Polonia non mi azzardo. Mi sento come il protagonista di Epepe di Ferenc Karinthy (Adelphi, 257 pp., 13 euro€), quando si ritrova in una nazione la cui lingua non può essere ridotta ad alcun elemento noto; o come BoJack Horseman nella puntata ambientata in un mondo subacqueo, in cui tutti si comportano normalmente salvo parlare una lingua muta (con colpo di scena finale). Scopro così che non so niente.
 

Come nei sogni in cui ci si avvicina al dettaglio di un’immagine, e più ci si avvicina meno si riesce a metterlo a fuoco, le copertine dei libri polacchi sembrano avere subito lo smottamento delle abituali linee che a casa fisso ore e ore per trarne intrattenimento e profitto. Resta lo schema, svanisce il senso. Ancor più il terremoto è travolgente al cambiare sistema di scrittura: vale sfogliando una Bibbia in ebraico, scoprendo l’originale di un manga già letto, visitando una delle solenni librerie di San Pietroburgo. Il nostro essere colti vale solo entro una specifica cornice di simboli, fuori da cui ci smarriamo e apprendiamo che la lettura – nostro sapere e nostro diletto – è appesa al filo sottile di stanghette messe così e così, salvo precipitare nel vuoto quando sono disposte colì e cosà. Allora l’unico libro possibile sembra quello che tracci linee fuori da ogni cornice, come il Codex Seraphinianus (Franco Maria Ricci, 194 pp., 900 euro), scritto in una lingua e una grafia note solo a Luigi Serafini, che ne ha seguito rigidamente le regole affinché noi potessimo non seguirne nessuna.