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Una fogliata di libri

E se le frasi da bar su Verga non le avesse dette Susanna Tamaro?

Matteo Marchesini

La reazione del ceto letterario alle schiocchezze da bar su Giovanni Verga dell'autrice di "Per voce sola". Come dimostrato nei giorni scorsi con il caso Roccella, è addirittura più conformista e pavido del ceto politico

A Susanna Tamaro (che “ha scritto anche delle cose buone”: ricordate “Per voce sola”?) è scappata di recente una sciocchezza da bar su Giovanni Verga. Sintomatica finché si vuole, ma abbastanza irrilevante; e rivelatrice, semmai, del modo in cui si estende il dibattito nel mondo del cognitariato. Solenni scomuniche, in questo caso – e direi sproporzionate alla sciocchezza. Leggendole, però, immaginavo un’altra scena. Mettiamo che uno scrittore meno isolato e meno “passato in giudicato”, insomma uno degli scrittori più in vista, più corporativi, più potenti di questi anni si lasci scappare una frase analoga (ne hanno dette di ben più gravi). Che cosa succederebbe, allora? Io credo (anzi io so, e ho le prove) che tutt’intorno le fiere, nettissime reprimende dei colleghi letterati contro la Tamaro si trasformerebbero subito in tanti manzoniani “si es culpable”. A essere generosi, eh. Perché in realtà è più probabile che fiorirebbero dei lunghissimi editoriali, cavillosi da far impallidire Gorgia, sulla estrema “complessità” della questione, che ha “diversi aspetti da non liquidare superficialmente”. Roba del tipo: “Il già direttore del Salone Nicola Lagioia ha affermato… Affermazione forte, senza dubbio. Ma coraggiosa, e di questo gli va dato atto. Tanto più che col suo La ferocia ci ha restituito un’immagine del sud non immemore del Mastro-don Gesualdo’, e al tempo stesso capace di ripensare Verga nell’attualità virtual-finanziaria…”; oppure: “Lo dico in apertura: gli insulti a Chiara Valerio dopo la sua provocazione antiverghiana sono un insulto a tuttiɘ noi. Certo, Verga al liceo lo abbiamo letto. E amato. Ma poi siamo cresciutɘi, e all’apparir del vero, come davanti a certi uomini con cui abbiamo condiviso un pezzo di vita, alcuni entusiasmi non potevano che cadere: perché la sua mano fredda e ferinamente ignuda, di maschio patriarcale, ci restituiva un ritratto della donna – o sottomessa o fatua – che per nessuna ragione avremmo potuto più sentire nostro. Chiara ha esagerato, ci dicono. Ma non cominciano sempre così, le rivoluzioni degli oppressi e delle oppresse? Abbiamo sputato su Hegel, quando era necessario; risparmieremo forse, senza nemmeno un editing all’altezza dei tempi e dei corpi, il lato più angusto e più retrivo del verismo? Se ci contate, benpensanti, avete sbagliato i vostri calcoli”. Ecco: più o meno queste, se non proprio queste, sarebbero le reazioni del nostro ceto letterario prezzemolino; che come si è dimostrato nei giorni scorsi con l’affaire Roccella, è addirittura più conformista e pavido del ceto politico. E lo è, prima di tutto, davanti a chi magari non ha mai scritto nemmeno “Per voce sola”, ma a differenza della Tamaro può oggi sostenere o danneggiare carriere che si dimostrano ormai semplicemente imprenditoriali, anche se si travestono da vicende letterarie. Ho il sospetto che quando leggono “Rosso Malpelo”, alcuni degli improvvisati apologeti di Giovanni Verga s’identifichino segretamente con i suoi aguzzini, un po’ come l’Alex di Arancia meccanica, durante la presunta riabilitazione, mentre sfogliava composto le pagine evangeliche sulla croce sognava a occhi aperti di trasformarsi in un soldato romano con la frusta. Volete difendere Verga, o meglio ancora capirlo? Leggete invece il più bel saggio – o racconto? – sull’enigmatica evoluzione e involuzione della sua opera: s’intitola “Presagi del Verga”, lo ha scritto Giacomo Debenedetti, e oggi lo trovate nel Meridiano Mondadori dedicato al grande critico. Oppure cercate, nella raccolta “Il migliore dei mondi impossibili”, il ritratto che ne fa Pietro Citati in appena due pagine al limite della perfezione. Per il resto, che ognuno vada dove lo porta il cuore – o l’ansia di visibilità.

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