Nelle praterie per Whitman si coglie il “grande Qualcosa” in cui si fondono il reale e l’ideale (grafica di Enrico Cicchetti su foto Olycom)

una fogliata di libri

Di fronte al tremolare dell'uomo d'oggi è curativo leggere Whitman

Michele Silenzi

Nessun individuo più di lui ha cantato l’essere umano per ciò che è: un pezzo armonico della natura e allo stesso tempo quella parte del tutto che è unica proprio per il suo agire e per la sua autocoscienza

Di fronte al tremolare del profilo dell’uomo, in quest’epoca in cui l’inaccettabilità della sofferenza di qualsiasi essere senziente (che sia pianta, animale, persona) cancella ogni distinzione di valore tra gli esseri, e in cui anzi l’uomo disprezza se stesso come il peggiore degli esseri per il male che farebbe a tutti gli altri, ecco, in questo tempo, che è il nostro tempo, sarebbe curativo rileggere Walt Whitman. Nessun individuo più di lui ha cantato l’uomo per ciò che è, un pezzo armonico della natura, una foglia d’erba, e allo stesso tempo quella parte del tutto che è unica proprio per il suo agire e per la sua autocoscienza: “Sono deciso a dimostrare con voce chiara e/ coraggiosa quanto voi siate degni”. La vita del tutto che pulsa nell’uomo si manifesta nella flessuosità dei corpi che agiscono, nella coscienza di ciò che si fa, nella grandiosità delle costruzioni umane che piegano la natura onnipossente iscrivendosi naturalmente al suo interno con le proprie modifiche artificiali. Natura e tecnica trovano la loro sintesi nell’uomo. 

Nelle prose di “Nel West e altri viaggi” (Mattioli 1885) Whitman attraversa gli Stati Uniti in treno da Philadelphia a Denver. Sono le grandi pianure e le praterie del Missouri e del Kansas ciò che più lo colpiscono. Ed è il treno che le percorre e le rende momentaneamente dominabili ciò che lui ammira alla stessa maniera. In nessuno come in Whitman si avverte la naturalezza dell’artificiale, dell’antropizzato. Perché ciò che è artificiale è figlio del miracolo della natura (Dio), ossia dell’uomo. Una tensione costante tra la civilizzazione e la wilderness, l’una necessaria all’altra. Come il male è necessario al bene, in “Partendo da Paumanok” canta “io scrivo anche il poema del male, celebro anche quella parte / io stesso sono impastato di bene e di male, e così la / mia nazione: affermo che il male in realtà non esiste / (o, se esiste, esso è importante per voi, per il paese o / per me quanto qualsiasi altra cosa)”. 

Le praterie per Whitman sono il cuore dell’America e del suo futuro. La loro vastità è una sfida a spingersi sempre in avanti, alimenta lo streben di questo sereno Faust americano. Quegli spazi, dispiegamento spaziale delle età del mondo, appaiono a prima vista stupefacenti per la loro inafferrabilità eppure è l’uomo a renderli sensati, a tenere unito il terrore di quell’infinità e l’ardore della conquista. Nelle praterie per Whitman si coglie mentre si dispiega il “grande Qualcosa” in cui si fondono il reale e l’ideale e la cui vera eccezionalità non sta nella “cosa”, per quanto immensa, che si ha davanti agli occhi ma nel pensiero che riesce fuggevolmente a coglierla. Un pensiero che s’incarna poi nell’opera dell’uomo che arricchisce di se stessa la natura con i treni che attraversano quelle praterie, con i lussuosi vagoni, con la potente motrice “che incarna, e mi trasmette, il movimento più rapido, la forza più inarrestabile” mentre uomini, donne e bambini sono tranquillamente appisolati “e intanto continuiamo a correre e correre, a volare come fulmini nella notte”.

Whitman al porto di New York ammira i piroscafi, “grandi Signori dell’oceano… con il loro inestimabile carico di vite umane e merci preziose”, in partenza per l’Europa. Ma l’Europa è lontanissima per il poeta, l’avverte come un luogo di macerie romane e feudali, nulla per lui di paragonabile all’immensità della natura americana e al suo temerario individuo pacifico e produttivo ma sempre anche irrequieto e bellicoso pronto a conquistare il proprio tempo e il proprio spazio. 

Giunto in Colorado, Whitman ammira i canyon e i picchi delle montagne, i cedri, gli abeti rossi, le torri di roccia ma è sempre l’uomo al centro, al centro anche dell’ammirazione per quella roccia dove si scorgono “i segni dell’instancabile presenza dell’uomo e del suo lavoro da pioniere, duro come il volto della natura”.
 

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