È in libreria, per Odoya, “La vera storia di Emilio Salgari”, di Felice Pozzo (elaborazione grafica di Enrico Cicchetti) 

Una fogliata di libri

Quei transfughi della vita che continuano ad amare Salgari

Edoardo Rialti

La recensione del libro “La vera storia di Emilio Salgari” di Felice Pozzo, Odoya, 415 pagine.

Ci vogliono mondi per creare un mondo, per ricomporre le mille attrattive e suggestioni del tempo e dello spazio in un nuovo universo, in un orizzonte dell’immaginario. E’ questo che si pensa a percorrere gli infiniti tasselli del mosaico raccolti da Felice Pozzo per la sua “La vera storia di Emilio Salgari” (Odoya). Giornali di viaggio, romanzi d’appendice, riviste scientifiche e archeologiche, Robin Hood, Byron, così come i diari di Garibaldini, missionarie, esploratori, tutto ciò e infinitamente altro confluisce nella penna di chi, già all’epoca, fu definito “la tortura delle mamme economiche”.

 

Il suo stesso tabacco preferito -il Macedonia- evoca oggi il vago sentore di un’epoca che finiva ancora di mappare il mondo. “Fuma sempre… come Yanez” notava la moglie Ida. Salgari attribuiva spesso la sua stessa età ai propri protagonisti, che invecchiano man mano con il creatore, il quale però a differenza loro non potrà ringiovanire mai. Gli anni scorrono così, tra speranze, successi clamorosi e terribili frustrazioni, con sfide all’arma bianca con colleghi giornalisti (“ci rammarica di annunciare che i signori Salgari e Biasoli non abbiano saputo comporre le loro divergenze se non ricorrendo a un duello”), il proliferare di apocrifi, omaggi alla monarchia sabauda, suppliche agli editori per compensi e contratti, dalla natia Verona alla Torino scapigliata, assieme alla consorte amatissima e ai figli dai nomi esotici, fino al terribile suicidio finale, e per tutto il tempo sulla pagina ecco rovesciarsi un diluvio di strangolatori, corsari, assedi nella nebbia, agnizioni, gesti magnifici e terribili, spaziando dal western alla fantascienza.

 

“Il Corsaro Nero piange” dà il titolo a un’antologia sui 365 modi geniali di finire un romanzo. Gli illustratori si permettono libertà licenziose con le generose scollature delle figure femminili, mentre la censura smussa o elimina i passaggi narrativi più controversi. Perché quel mondo così apparentemente disimpegnato di avventure emozionanti – che l’ironia di Vamba giudicava un’evasione infantile da “transfughi della vita” – era percorso da una “bellezza strana”, tutt’uno con quella del suo più celebre protagonista, un’intensa carica ribelle, vagheggiata dallo stesso Gian Burrasca. “Che cosa accadeva quando un ragazzo leggeva Salgari, dove gli eroi erano sovente di colore e i bianchi malvagi?”, si sarebbe chiesto Umberto Eco. Mentre i ministeri educativi del Ventennio cercavano di incanalarne il successo facendone uno dei precursori del regime, Margherita Sarfatti non si faceva illusioni: “Questo tipo, del cittadino in rivolta, è il tipo anti italiano e fazioso della vecchia Italia che il fascismo rieduca, muta e rinnova”.

 

Negli stessi anni a divorare le avventure di Sandokan era il giovane Che Guevara. “L’unità epica è il metro necessario per comprendere la discontinuità e la frantumazione che le sono subentrate”, scrisse Claudio Magris. E ricomporle, magari. “Sei contento tu di essere diventato un principe?”, domanda un invecchiato Yanez all’amico Sandokan. “No”. “Che cosa vorresti dunque?” “La mia Mòmpracem”. La vecchia tana dei due eroi, un punto di partenza che parrebbe precluso dalle loro stesse vittorie, non è stata solo loro. Ancora oggi. Qualche mese fa chiacchieravo con un liceale con tanto di maglietta dei Megadeth, e alla domanda su cosa gli piacerebbe raccontare agli amici mi sono sentito rispondere i romanzi di Salgari. Ho annuito con un cenno, complimentandomi per la scelta, ma dentro di me ero stupito, e contento. Mompracem aspetta, e qualcuno conosce la strada di casa.

 

La vera storia di Emilio Salgari

Felice Pozzo

Odoya, 415 pp..

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