Mario Dondero nella grafica di Enrico Cicchetti 

Il racconto di un'amicizia che è lo spaccato di un paese

Daniele Mencarelli

Angelo Ferracuti, con “Non ci resta che l’amore” (il Saggiatore), racconta il fotografo Mario Dondero

Attraverso percorsi assolutamente singolari, spesso molto distanti per provenienza e anagrafia, non di meno orizzonti, da più parti resistono scrittori che fanno della letteratura un gesto estroverso, spianato sulla realtà.

 
La grande scoperta che fanno questi autori è l’altro da sé, una scoperta che li porta a rivoluzionare il loro modo di vivere la letteratura, e di scriverla. L’estroversione è un gesto, soprattutto in questa epoca, difficile per un’artista, così ripiegato sul proprio io, più o meno immaginifico, più o meno traslato nella finzione. 

 
La scoperta dell’altro da sé, attraverso l’arte più bella di tutte, quella dell’incontro, è oggi profondamente eversiva. L’altro è visto come una minaccia costante, un nemico da evitare. La stessa arte dell’incontro è assediata, vilipesa da narrazioni contaminate da odio ideologico e da interessi di varia natura. In questi autori toccati dalla realtà a prevalere è una visione di letteratura come gesto di testimonianza, letteratura come dovere civile, come atto politico rivolto a una comunità, un popolo. Lo scrittore si intesta un compito pericolosissimo: trasferire la memoria, nel farlo non si gioca solo la carriera, ma la vita, e per chi ci crede, l’anima.
Angelo Ferracuti, con “Non ci resta che l’amore”, edito dal Saggiatore, dà prova nei fatti di questa poetica estroversa e civile.  Lo fa raccontando un grande fotografo italiano: Mario Dondero

 
Per chi non lo conoscesse, Dondero è stato uno dei testimoni più autentici del Novecento, un fotografo rabdomante acceso da una passione sfrenata per l’uomo e il mondo, capace di immortalare i grandi suoi coevi, da Pasolini, a Fidel Castro, a Beckett, e allo stesso tempo unico nel fermare su pellicola i piccoli, grandi fatti che hanno caratterizzato un secolo sempre in precario equilibrio tra progresso e distruzione. Il Novecento, appunto, con le sue disuguaglianze sociali, le sue accelerazioni economiche. Dondero fece degli uomini, a partire dagli umili, la sua religione personale.

 
Non si pensi, però, a uno dei tanti libri su commissione che popolano gli scaffali delle nostre librerie. L’operazione è abbastanza semplice, prendere un autore contemporaneo e affidargli una biografia romanzata, di questo o quel personaggio storico. Il sapore è sempre lo stesso: un estraneo che tenta di entrare nella vita di un altro senza averlo veramente vissuto. Tutt’altro.
Ferracuti è stato amico, allievo, di Mario Dondero. I due hanno condiviso lo stesso paese delle Marche, Fermo, paese che con quel nome, come sottolinea ironicamente l’autore, non può che aver creato nel cuore del viaggiatore indomito Dondero una suggestione fortissima.

 
Altrettanto ironica è la pagina dedicata agli anni in cui il giovane Ferracuti guardava da lontano il celebre fotografo: prima ancora di conoscere Dondero, però, sono stato il suo postino, quando ancora giovane consegnavo la posta nella mia piccola città, e sbucavo senza che lui lo sapesse a bordo della Vespa nel vicolo dove abitava…

 
Dondero fu antifascista e partigiano, il libro alterna approfondimenti dedicati agli anni della guerra e del Dopoguerra ad altri più vicini al presente, anni di collaborazione tra lo stesso Dondero e Ferracuti. Anni di viaggi e di lavoro comune.
“Non ci resta che l’amore” è, in fondo, il racconto di un’amicizia e al contempo lo spaccato di un paese e la sua vita sociale e culturale.

 
Dondero racconta, Ferracuti apprende e custodisce. Un maestro con il suo allievo migliore.

 
Anche questo rapporto, oggi, sembra così eversivo.
 

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