Elaborazione grafica di Enrico Cicchetti 

Una fogliata di libri

La vera tragedia è aver capito che non si è saputo vivere

Giulia Ciarapica

Il Saggiatore rimanda in libreria “La bestia nella giungla” di Henry James 

E’ incredibile come un racconto pubblicato nel 1903, dopo ben centodiciannove anni, due guerre mondiali, tante battaglie e tante conquiste, sia ancora qui, vivo vegeto e attualissimo, a chiederci il conto dei nostri fallimenti, quelli che non moriranno neanche quando saremo polvere. Perché il Nulla che ci portiamo dentro non è una storia di adesso, è faccenda antica, che nei secoli ci è esplosa in mano come una bomba, ma architettata da noi stessi. Di tutte le prigioni che ho abitato, scrisse Penna, avevo la chiave, e noi ce l’abbiamo, ma di proposito l’andiamo perdendo.
Questo, per prepararvi alla lettura di un piccolo capolavoro – scomodiamo un termine fastidioso, ma è il caso – che torna in libreria grazie al Saggiatore in un’edizione tutta sua, luminosissima: il racconto lungo di Henry James, La bestia nella giungla, il quale dobbiamo essere pronti ad accettare come una Bibbia delle umane genti, le più disperate, le più inutili.

 

Leggere del “poor John Marcher” che accoglie nella sua tenuta la giovane May Bartram, incontrata dieci anni addietro in Italia (Roma? Napoli? Non ricorda di preciso) e alla quale – lei sola, unica al mondo – ha confessato di temere un’aggressione da parte di una Bestia, destinata ad aprire una voragine incolmabile, ecco, leggere di loro due, gustare quel lungo colloquio in cui si dice senza dire, è quanto di più pericoloso, audace e terribile un uomo possa fare. Perché a qualunque epoca appartenga, l’individuo che leggerà la loro conversazione, e poi la confessione, e infine la tragedia, si renderà conto di essere lui, quel “poor Marcher”, non un altro, non un personaggio fittizio o immaginario, ma proprio lui.

 

Non è un racconto di fantasmi – un genere cui James è molto affezionato – solo perché non ci sono spiriti, entità, forze soprannaturali, ma potremmo comunque definirlo tale perché vien fuori quella che nell’introduzione Alberto Rollo – strepitoso nel ruolo onnisciente di curatore dell’opera – definisce come “matassa analitica, ossia oscuro tormento, teatro della cecità emotiva, nebbia del rimosso”. Il fantasma esiste, e come direbbe sempre Henry James ne “Il giro di vite”, alla fine il fantasma siamo noi, il fantasma di noi stessi.

Il dramma di Marcher e Miss Bartram si sviluppa in cento pagine, durante le quali si susseguono riferimenti ad un tempo passato in cui il segreto della vita di Marcher, ossia l’avvenimento tragico che da un momento all’altro l’avrebbe colpito, la Bestia acquattata nella Giungla e pronta a ucciderlo balzando fuori d’un colpo, viene confidato proprio a lei – anche stavolta, è una donna a dover custodire un dramma, che coincide con la verità e quindi col mistero della vita. Lei sa tutto, e sa anche come andrà a finire, a differenza di Marcher che giunge al capolinea senza essersi reso conto che la sua condanna si è già consumata: il vuoto in cui è vissuto e che non gli ha lasciato scampo. Neanche l’amore l’ha salvato, perché lui non l’ha visto, non l’ha considerato. Siamo noi John Marcher, oggi più di ieri: schiacciati dal solipsismo, ci accorgiamo di morire solo quando scopriamo chi sia la Bestia, poco prima che ci aggredisca. La Bestia siamo noi, è il nostro modo di essere soli in una solitudine cieca, attorcigliata su se stessa. E’ questo che James ci insegna, dopotutto: non è il non aver vissuto, è l’aver capito, a un certo punto, che non si è saputo vivere, la vera tragedia.

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