Una fogliata di libri

Il maledetto Novecento ha messo in crisi il mito della giovinezza

Giulia Ciarapica

Quanto tempo dura la nostra adolescenza? Una riflessione che sorge spontanea leggendo l'illuminante saggio di Luca Chiurchiù

"Quanto tempo era durata la sua adolescenza? Allora un desiderio pazzesco, che la faceva tremare tutta, la invase: ella voleva riavere la sua adolescenza”.


Lo scriveva Tozzi ai tempi del racconto “La specchiera” ma la domanda, oggi, non fa una grinza: quanto tempo è durata la nostra adolescenza? Quanto tempo dura, ora, l’adolescenza? In che cosa si è trasformata? Sembra incredibile ma il balzo temporale all’indietro – dal punto di vista dell’analfabetismo emotivo – che abbiamo compiuto nel corso degli ultimi anni ci dà la conferma della nostra, forse perenne, chissà, aderenza a quell’idea di giovinezza malata che è appartenuta a certi scrittori primonovecenteschi, come Tozzi, Moravia o Brancati (per non parlar di Svevo, che si affaccia già alla fine dell’Ottocento sulla scena letteraria con un impeto di coraggiosa modernità).


La riflessione sorge spontanea leggendo l’illuminante saggio di Luca Chiurchiù, “Primavera d’incertezza” (Edizioni Eum), in cui ripercorrendo l’ascesa e poi la trasformazione del mito della giovinezza in qualcosa d’incerto, di traballante, l’autore arriva a concepirne il disfacimento in termini di malattia, proprio come accade in molti dei romanzi di Federigo Tozzi e Alberto Moravia, per citare i due esempi probabilmente più vicini, soprattutto oggi, al nostro sentire comune.


Se è vero che già a partire dalla metà del Settecento, e poi per tutto il secolo XIX, la giovinezza si viene delineando come un modo d’essere e di agire, le cui caratteristiche fondanti sono la vitalità, la prestanza fisica e morale, il rifiuto delle regole imposte, l’auto identificazione col progresso – la cosiddetta “gioventù di ferro d’Europa” che si rivolge unicamente ai maschi –, è allo stesso modo vero che la situazione cambia drasticamente alle soglie del Novecento. Mentre viene frantumandosi lo schema classico del Bildungsroman, ecco che il mito della giovinezza inizia a strizzare l’occhio all’universo fiammeggiante della malattia attraverso le opere di certi scrittori che mettendo in luce le contraddizioni di questo mito dal di dentro narrano quella che Chiurchiù definisce come una “controstoria” della giovinezza.


E’ la trappola esistenziale che ritroviamo ne “Gli indifferenti” o in “Con gli occhi chiusi”: questi ragazzi di carta, più giovani dei loro predecessori, sono personaggi scissi, disarticolati, smarriti e incapaci di percorrere un cammino che, in via teorica, prima di loro i coetanei non avevano avuto problemi a portare a termine. Che sta succedendo, quindi? Forse quello che succede anche ora, non necessariamente nei nostri romanzi contemporanei ma nelle nostre abitazioni sì.


Ci stiamo riavvicinando – o magari non ce ne siamo mai allontanati – a quella regressione social-sentimentale che vedeva i protagonisti tozziani preda di uno stato d’essere che risponde al nome di giovinezza: quand’è che diventa malattia? Quando non siamo pronti a lasciarla andare, quando non possiamo sfruttarla appieno, quando – come accade alle creature di Moravia – ci ritroviamo storditi dalla “dirompenza dell’età verde”, incapaci di ottemperare a quelle mansioni e a quei compiti dei quali non comprendiamo esattamente il senso, pur sentendoci chiamati a rispettarli.


Siamo ancora tutti lì, fermi accanto ad Alfonso Nitti, a Michele Ardengo, a Leopoldo Gradi. Non ci siamo mossi di un passo e anzi, probabilmente, sotto sotto, abbiamo iniziato ad invidiarli un po’.

 

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