Ararat

Alessandro Mantovani

La recensione del libro di Louise Glück, il Saggiatore, 128 pp., 14 euro

Secondo la mitologia biblica, durante il diluvio universale, l’arca di Noè si incagliò sulla cima del monte Ararat dalle parti dell’Armenia; da allora il monte è diventato simbolo di salvezza, intesa come ultimo appiglio disperato di fronte alla rovina. E’ proprio in questa dimensione estrema che la poetessa Louise Glück vuole calare il lettore intitolando appunto Ararat la terza delle raccolte tradotte in Italia dal Saggiatore in seguito alla vittoria del Nobel da parte dell’autrice. Dopo il titolo biblico, il libro mostra immediatamente la ricchezza delle sue suggestioni antiche combinando la tradizione ebraica a quella greca, attraverso la prima poesia, intitolata Parodos, ossia l’ingresso del coro sulla scena nella tragedia greca, momento che come nell’antichità così nel libro, avvia la vicenda. “Ero nata con una vocazione | testimoniare | i grandi misteri”, scrive Glück assumendo un ruolo insieme di attrice e spettatrice – come l’antico coro greco – all’interno della propria storia familiare, tema centrale di tutta la raccolta.

 

Testimoniate e trasfigurate dallo sguardo della poesia infatti le vicende private della famiglia dell’autrice diventano subitaneamente paradigmi per trattare i grandi temi della tradizione lirica occidentale. La morte, il tempo, le età della vita, si innestano sull’esposizione spudorata dei sentimenti più torbidi che albergano al di sotto della multiformità dei ruoli imposti dalla messinscena della vita. Figlia, sorella, madre, cugina, Glück espone e squaderna la galleria di personaggi interpretata nell’esistenza familiare, arrivando a rilevare come l’amore, pur restando quella macchina dantesca che muove tutte le cose, sia in realtà un sentimento contraddittorio fatto di dolore e complessità (“da bambina, pensavo | che il dolore volesse dire | che non ero amata. | Voleva dire che amavo”).

 

Non da meno è la realtà, il palco, su cui si muovono gli attori. Il mondo di Ararat infatti è un guazzabuglio ostile dove a un materialismo nichilista (“l’anima è come tutta la materia”) si accosta una teologia che dell’antichità raccoglie solo il sapore tragico, dal dio ebreo “che non esita a strappare | un figlio alla madre”, al motivo classico dell’invidia degli dei per cui “ogni felicità | attira la collera delle Parche”. Con una lingua insieme semplice e acuminata, Glück racconta lo smarrimento di un’esistenza moderna e catastrofica in cui i vincoli familiari risultano a un tempo dannazione e salvezza, nocivi eppure indispensabili.

 

Ararat
Louise Glück
il Saggiatore, 128 pp., 14 euro

 

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