L'estate di Aviha

Ferdinando Cancelli

La recensione del libro di Gila Almagor, Acquario, 128 pp., 12 euro

Un racconto che ho narrato per emigrare nel suo seguito”. Gila Almagor, attrice di cinema e di teatro israeliana, pone questa frase all’inizio di un libro, L’estate di Aviha, pubblicato nel 1985 ma solo da pochi mesi tradotto in italiano da Paola M. Rubini per i tipi delle edizioni Acquario. Un libro all’apparenza “leggero”, sia per la gradevole veste editoriale che per il soggetto trattato in non molte pagine. In realtà, quello che è stato scritto da un’autrice che “è arrivata alla scrittura senza immaginare che qualcuno avrebbe poi letto i miei testi” come lei stessa dice in una lunga e toccante intervista alla casa editrice visionabile online accedendo a un link presente nel risvolto di copertina, è opera che tocca multipli e delicatissimi temi: il difficile rapporto con la memoria e con la storia di chi tornava o arrivava in Israele dall’Europa, la malattia mentale e l’immagine che di essa ha la società di ogni tempo, il rapporto madre-figlia. La storia di Aviha, ragazzina nel neonato stato di Israele degli anni 50, è quella di Gila Alexandrowitz, che solo da adulta assumerà il cognome Almagor. Una storia che dura un’estate, l’unica che riuscirà a trascorrere accanto alla madre. Nel marzo del 1939 il padre di Gila, Max, fuggito dagli orrori della Germania nazista, fu ucciso a Haifa da un cecchino arabo: anche Aviha, il cui nome letteralmente significa “il padre di lei”, non conoscerà mai il proprio padre e si confronterà con la malattia mentale della madre, specchio di quel disordine doloroso che colpì la ventitreenne e già vedova Chayiah poco tempo dopo aver dato alla luce la figlia Gila. Il romanzo narra le vicende del rapporto tra Aviha e la madre con la spontaneità sincera di chi si specchia in quello che scrive, con la delicatezza di una figlia che ha profondamente amato la madre nonostante i momenti difficili di depressione e incomprensione che ne segnano le giornate. Eppure Aviha sperimenta anche il lato dolce e confortante della madre in molti momenti e alla fine del romanzo sembra lasciar presagire un vuoto che resterà incolmabile: “Capii che tutto ricominciava da capo, che la sua malattia stava tornando e che fra poco me l’avrebbero portata via”. Alla fine del libro si trova la breve ma profonda biografia dell’autrice curata da Paola M. Rubini: da queste righe apprendiamo che Gila Almagor significa in ebraico “Gioia, niente paura”. Da tutto il libro, nonostante la drammaticità degli eventi narrati o sottesi alla narrazione, emerge forse per questo la chiara speranza di un futuro diverso. Non solo per la piccola Aviha. 

  

L’estate di Aviha

Gila Almagor

Acquario, 128 pp., 12 euro

 

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