Una fogliata di libri

L'arte di portare il soprabito

Francesca Pellas

La recensione del libro di Sergi Pàmies (Sem, 264 pp., 16 euro) 

Nora Ephron ebbe una madre sceneggiatrice, poi morta di cirrosi epatica, che per tutta la vita le fece un’unica raccomandazione: di prendere appunti, perché ogni cosa è materiale, e dalle nostre tragedie di oggi possono nascere le commedie di domani. La madre di Sergi Pàmies, scrittore catalano adorato in patria, non avrebbe potuto essere più diversa da Phoebe Ephron: Teresa Pàmies i Bertran fu una figura politica impegnatissima, visse in clandestinità, sposò quello che poi divenne il segretario del Partito unificato socialista della Catalogna, e morì a 92 anni. Sempre però scrivendo. E instillò nel figlio l’idea che “tutto ciò che viviamo è suscettibile prima o poi di convertirsi in letteratura”, anche gli eventi più piccoli, o le sensazioni più sottili di fronte alle cose grandi, come il pensiero che la cucina, quando ci si sta separando dalla propria moglie, sia il luogo più adatto a dirsi la verità: questo perché “in cucina l’intimità è relativa”, e ci sarà sempre qualche spia sonora o il ronzio del frigorifero a spezzare la tensione.

 

È una piccola scena contenuta in L’arte di portare il soprabito di Sergi Pàmies, appena uscito per SEM nell’ottima traduzione di Francesco Ferrucci. Il libro si legge in una giornata: sono tredici racconti brevi, ma ampi come la vita, in cui l’ironia è il doppio fondo che ne protegge la profondità. “Te ne renderai conto quando starai per finire il manoscritto che stai scrivendo da cinque anni: in fondo non hai fatto nient’altro che ripensare all’idea di non essere riuscito a rendere felice qualcuno”. Tra un pensiero folgorante e l’altro, seguiamo Pàmies a una festa con un morto in piscina che potrebbe essere lui, al canile con i figli a cercare un cane che forse gli salverà il matrimonio, e ancora alla scrivania dove lavora, all’aeroporto dove va a guardare la gente, e sul treno dove piange per un film e intanto si chiede come mai per un film gli riesca facile e invece nella realtà abbia così poca empatia (una volta si diceva compassione, fa notare). Ci sono riflessioni sulla paternità, bozze di relazione per un ipotetico congresso di separati, la confessione articolata in punti di un delirio adolescenziale (quando Pàmies pensava di non essere figlio di suo padre, ma di Jorge Semprún), e le cronache spassose del periodo che sua madre trascorse in casa di riposo (quando Teresa meditava di scrivere un ultimo libro di memorie intitolato Novant’anni sono troppi). E in mezzo a tutto soffia la vita, con la sua malinconia e i momenti dorati, come in quelle giornate di brezza leggera in cui fa comodo avere un soprabito. 

 

L'arte di portare il soprabito
Sergi Pàmies 
(Sem, 264 pp., 16 euro) 

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