MARCO BUCCO / ANSA

Una fogliata di libri

Mario Luzi e il se stesso irraggiungibile di ogni poesia

Edoardo Rialti

In una nuova monografia, Daniele Piccini ripercorre raccolte, drammi e saggi del letterato fiorentino. Cogliendovi la tensione tra un "universo perduto" che si aspira a ricostruire e la "sacralità del mutamento" che macina la nostra esperienza di vita

E poi / la potenza casuale di un nome / o l’oscura rispondenza, / se anche dice poco di lui che lo incarnò una volta: / ben oltre quell’ombra”. Ricordo il silenzio in cui sprofondai, come una corrente fredda in mare, quando lessi per la prima volta questi versi dell’“Ipazia” di Luzi. Coincise con l’avere diciassette anni e con la scoperta della poesia. Aiutava che ciò avvenisse a Firenze, nei sabati della medesima Piazza d’Azeglio dei suoi primi versi, “in quel tempo sospeso” che è l’adolescenza, “in quella città rocciosa e abissale che è la città di Cavalcanti e Dante”. So di non operare un trucco retrospettivo se attribuisco gran parte della forza ghermitrice a quell’“E poi”. Come qualcosa che affiori dal fiume carsico di un discorso interiore, un accordo grave a palesare quanto già rintoccava senza suono. Lo aveva notato lo stesso Luzi, “la voce del vero poeta dà sempre l’impressione d’una voce perpetua che ricomincia miracolosamente a parlare in quel punto.” Al “fremito pensoso” – sono parole di Fortini, che lo considerava “l’avversario ideale e continuo; quello di cui, preziosa come un rimorso, si sarebbe voluta l’amicizia” – della sua opera è dedicata la bella monografia di Daniele Piccini (Salerno) che ripercorre raccolte, drammi, saggi cogliendovi appunto la tensione tra un “universo perduto” che si aspira a ricostruire, un ordine previo intravisto in attimi riposanti ed estatici di perfezione e comunione, e al tempo stesso la “sacralità del mutamento” (Pampaloni) che macina lo nostra esistenza individuale e collettiva e ci accomuna ai pini deformati dal vento di mare o agli impulsi inquieti di salmoni e lupi.

 

Qualcosa di già dato e qualcosa che forse si può raggiungere solo nello sfaldarsi di quanto già posseduto: “Il progresso spirituale non può consistere per noi che in questo cammino occulti verso la nostra verità singolare e, in termini più solenni ma identici, verso la verità come si è attuata nella nostra propria persona”. C’è tanta luce, tanto oro nella poesia di Luzi – “E’ essenza, avvento, apparenza, / tutto trasparentissima sostanza. / E’ forse il paradiso / questo? oppure, luminosa insidia, / un nostro oscuro / ab origine, mai vinto sorriso?” – ma ancor più, forse, tanto grigio: “Mi trovo qui, a questa età che sai, / né giovane né vecchio, attendo, guardo, / questa vicissitudine sospesa.” Sedere davanti all’Arno, mentre intorno corrono i bambini e in cielo strillano le rondini, e cogliere il dolore e il respiro di questa nostra perenne “identità nel mutamento” comunque si tenti di esprimerla: “Invece, c’è qualcosa che trascende te stesso, che trascende il tuo episodio, che ti richiama in causa, come se tu fossi un’altra persona da quello che avevi già scritto e che però si ricompone in unità”. E’ con questo scarto e in questa oscillazione che nelle poesie di Luzi compare talvolta il suo stesso nome, trasformato dall’amore –“E io mi levo, mi libro e mi tormento/ a far di me un Mario irraggiungibile / da me stesso” – nella dialettica dolorosa con chi sente distante per ideologia – “O Mario, dice e mi si mette al fianco / per quella strada che non è una strada / ma una traccia tortuosa” – in certi crocevia del pensiero – “Talora lo intravedo / un me altro da me, / un me ben altro …tendo verso di me le braccia, mormora / Mario / quanto ti sei fatto attendere”. In fondo, forse ogni esperienza autentica è proprio questo appuntamento con se stessi.

 

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