La terra promessa

Roberto Paglialonga

Il libro di Erich Maria Remarque, Neri Pozza, 464 pp., 17 euro

La terra promessa non esiste. Se non nella testa di chi la cerca. Per chi ci crede, con grazia cristiana si può conquistare “il centuplo quaggiù”, ed è già il massimo. Non un luogo, dunque, ma uno spazio, è la meta cui la tensione del vivere indirizza il cuore. Uno spazio interiore, nel quale l’io sboccia come il centro che fonde inestricabilmente passato e destino di ciascuno. La terra promessa, se c’è, è lì. Nel compimento di sé. E’ quanto sperimenta, ma non riesce a comprendere, il protagonista dell’ultimo romanzo di Erich Maria Remarque, Ludwig Sommer, scampato alla crudeltà e all’abominio della Germania nazista e rifugiatosi sul finire della guerra a New York. Il grande scrittore tedesco – nato a Osnabrück nel 1898 e morto nella Svizzera ticinese nel 1970, rimasto famoso per il solo, e straordinario, Niente di nuovo sul fronte occidentale, sebbene la sua produzione ammonti a una decina di romanzi, tra cui il bellissimo La notte di Lisbona – vi lavorò per tutta la vita. Senza riuscire a completarlo, tormentato da un’ansia compositiva che lo chiuse in un perfezionismo asfittico e gli impedì di essere prolifico ed efficace come, per esempio, il suo antagonista Thomas Mann. La “Grande mela”, città che meglio incarna il sogno americano, ma anche la sua ineffabile disillusione, fa da palcoscenico a questa sceneggiatura quasi teatrale, nella quale compaiono via via tutti coloro che da “Emigranten”, assieme a Sommer (lo stesso Remarque…), cercarono riparo e nuova vita al di là dell’Atlantico. Ma non ci s’inganni: non è il tema delle migrazioni a rendere attualissimo La terra promessa, pubblicato postumo e ora riproposto in italiano da Neri Pozza. Le storie di questi disperati, acchiappate in dialoghi fulminei e serrati, talvolta sarcastici come solo la cultura ebraica nordamericana ha saputo renderli in letteratura, sono poco più che flash nell’unico canovaccio che riguarda, invece, Ludwig Sommer. Il russo Meukoff, gestore dell’Hotel Rausch e piccolo contrabbandiere di vodka a buon mercato; l’amico frustrato e rancoroso Robert Hirsch, reinventatosi commerciante di anticaglie; il banchiere Tannenbaum, tanto desideroso di finire la propria esistenza nella dimenticanza da cambiare il proprio cognome in un banalissimo Smith; l’italo-ispanico-russo-tzigana fotomodella Maria Fiola, che diverrà la sua amante, si accendono e si spengono di volta in volta nel grande monologo di Ludwig, esaltandolo. Anche lui avrebbe potuto limitarsi a sopravvivere nel dolore, invece si fa mercante d’arte e sfonda. Eppure, nemmeno il successo economico e sociale basta al riscatto. A lui manca la vendetta contro il gerarca nazista che gli ha massacrato il padre; di più: lui vuole la vendetta contro il male. Ma, gli dice a un certo punto Meukoff, “è come se, dopo un terremoto devastante, un bambino reclamasse il pallone che ha perso”. Allora è il viaggio alla ricerca di sé, della propria identità storica e personale, e della felicità, a rendere grande questo libro. E a vivificare l’esistenza di ciascuno e del protagonista. Che, come il testo appunto, non poteva che rimanere incompiuta. Del resto, non è un’illusione la giustizia senza perdono? E questo chi può umanamente concepirlo? 

 

La terra promessa

Erich Maria Remarque

Neri Pozza, 464 pp., 17 euro

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