L'Anarchico

Massimo Morello

Il libro di Soth Polin, O barra O Edizioni, 188 pp., 16 euro

Un libro orrendo, orrido, che desta orrore, fa inorridire. Nel romanzo L’Anarchico del cambogiano Soth Polin la parola orrore è ripetuta, declinata, metastatizzata in sinonimi, metafore, proverbi: “Una fine orribile è meglio di un orrore senza fine”. La sindrome dell’orrore in molta letteratura si rivela fatale: conduce a una fine ridicola più che orribile. Accade per contagio, trasmessa dall’inconscio desiderio di divenire protagonisti di qualche oscura vicenda, tanto più in un altrove malsano. Un cuore di tenebra com’era la Cambogia, di cui troppi cercano ancora di sentire il battito. “Costruire ponti falsi o illusori sopra abissi vaneggianti è cosa inutile” scrisse Gustav Jung, riferendosi all’attrazione occidentale verso un oriente fatale.
Ma in questa storia l’orrore è autentico. Vissuto, subìto, inferto (difficile stabilire il limite autobiografico), accolto come punizione e redenzione. “Quanto era squisito tuttavia trovare la vita immonda”, scrive l’autore.

 

Il romanzo, diviso in due parti, scritte a dodici anni di distanza, attraversa la storia cambogiana dagli anni Sessanta del secolo scorso al 1980 (quando è stato pubblicato in Francia): anni in cui l’orrore è apparso in Cambogia in tutte le sue forme, sino all’apocalisse di “quei tre anni, otto mesi, venti giorni” in cui il regime dei khmer rossi vi materializzò le scene di ogni inferno. “Si tratta soltanto dell’orrore costantemente ricominciato, del grande tumulto della Storia, là dove le passioni umane sono esacerbate, incandescenti”, scrive nella sua introduzione Patrick Deville.

 

Di quella storia l’autore è stato anche interprete, “anarchico” come possono esserlo gli spiriti psicopatici del mondo magico khmer, che non hanno pace sinché non fanno soffrire i loro nemici alla stessa maniera hanno sofferto. Un Joker. Per Soth Polin la sofferenza è la perdita del suo paese e della sua stessa identità, per quanto costruita sopra gli abissi vaneggianti tra oriente e occidente, un nichilista che ha perduto la fede nella filosofia occidentale come nel Budda. “E anche quel sorriso enigmatico e millenario del Budda, che cos’è? Dubito fortemente che si tratti di benevolenza… dietro il sorriso c’è il ghigno, il sarcasmo. Sotto l’apparenza di beatitudine, c’è la durezza”.

 

Nato nel 1943 in una famiglia dell’alta società khmer, alle scuole medie il suo professore di francese è un certo Saloth Sar, che sarà conosciuto come Pol Pot, il fratello numero uno dei khmer rossi. Ma Soth Polin non ne viene influenzato. Anzi, diverrà un sostenitore della fazione nazionalista del generale Lon Nol per poi essere inesorabilmente travolto da lotte di potere e intrighi. “Cosa vuoi, amica… tutto era inestricabile. Sangue e soldi! Sesso e politica! Come pensi di separarli, di sbrogliarli, nella Cambogia di quegli anni?”. L’Anarchico, quindi, racconta di altri orrori rispetto a quelli dell’immaginario collettivo sulla Cambogia. Gli stessi che oggi appaiono come una metafora o una previsione. Scriveva l’anarchico negli anni 70: “L’America è ben lontana dall’essere una civiltà… piuttosto è una società a irresponsabilità illimitata. Finora ha solo sacrificato i propri alleati”.

 

Soth Polin
L’Anarchico
O barra O Edizioni, 188 pp., 16 euro

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