Kentuki

Andrea Frateff-Gianni

Il libro di Samanta Schweblin, Sur, 230 pp., 16,50 euro

Se siete tra quelli che hanno messo un quadratino di scotch per coprire la webcam del vostro computer dopo aver visto una puntata di “Black Mirror”, Kentuki di Samanta Schweblin è il libro che fa per voi. Edito da Sur e tradotto da Maria Nicola, il nuovo romanzo di questa quarantenne argentina di casa a Berlino – considerata una delle voci più interessanti della sua generazione – racconta, attraverso l’uso della tecnologia, molto dei nostri tempi. I kentuki sono dei semplici animaletti di peluche. A volte sono topi o conigli. Altre volte corvi o addirittura draghi. Hanno delle rotelle con le quali possono muoversi, emettono piccoli versi e soprattutto hanno due telecamere al posto degli occhi. Sono diffusissimi in tutto il mondo e sono per tutte le età. Li troviamo a Hong Kong, a New York, a Oxaca. A Zagabria, Lione e Buenos Aires. Li usano bambini, giovani creativi, pensionati e persone adulte. Si può scegliere di essere un kentuki o di possederne uno. Liberamente. Unica prerogativa, avere un accesso a internet: “Un acquisto, una connessione. Questa era la strategia di marketing del prodotto. E lo scrivevano sul retro della scatola, come fosse un pregio”. Tramite questi grotteschi animaletti si può osservare a chilometri di distanza la vita di un altro, entrare nelle parti più intime della sua quotidianità, percepirne le ansie e le paure. Oppure si può decidere di essere osservati e così di diventarne padroni. Questo è l’inquietante meccanismo narrativo utilizzato da Samanta Schweblin per descrivere una serie di relazioni tra esseri umani che per la maggior parte dei casi diventeranno nevrotiche e ossessive. Avremo così kentuki ribelli, kentuki suicidi e perfino kentuki che finiranno appesi, attaccati per le zampe, a testa in giù e che verranno brutalmente torturati: “Quando il corvo strillò per la terza volta, lei si allungò verso lo sgabello, forbici in mano e, in due colpi gli tagliò le ali”. Impietosa fotografia neanche troppo distopica su quello che siamo diventati, il senso del romanzo della Schweblin si può tranquillamente riassumere in questa frase, pronunciata da uno dei suoi personaggi, Alina, giovane svedese trasferitasi in una residenza per artisti in Messico, che a un certo punto si chiede: “Che cos’era questa stupida idea dei kentuki? Che cosa faceva tutta quella gente che si aggirava sui pavimenti delle case altrui, che guardava come l’altra metà del genere umano si lavava i denti? Perché non era tutto diverso? Perché nessuno ordiva complotti davvero tremendi con i kentuki? Perché nessuno intrufolava un kentuki carico di esplosivo tra la folla di una grande stazione per far saltare tutto in aria? Perché nemmeno un utente delle migliaia che in quel momento dovevano muoversi su documenti importantissimi prendeva nota di un dato cruciale e faceva crollare la Borsa di New York? Perché le storie erano così piccole, così minuziosamente intime, meschine e prevedibili? Così disperatamente umane?”. Già, secondo voi, perché?

 

Samanta Schweblin
Kentuki
Sur, 230 pp., 16,50 euro

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