recensioni foglianti

La terra promessa

Alessandro Moscè

Matteo Righetto
Mondadori, 219 pp., 18 euro

Jole e Sergio vengono dal massiccio del Grappa e dall’altipiano di Asiago che costellano, da una parte e dall’altra, la piccola Nevada in Val Brenta, dove sono nati. Il romanzo La terra promessa è la parte finale della “trilogia della patria” di Matteo Righetto sulla saga della famiglia De Boer. Il libro precedente, L’ultima patria (2018) ambienta una specie di western all’italiana dove l’assalto dei banditi, a Nevada, determina il possesso illecito di alcuni lingotti e la conseguente volontà di giustizia per i torti maldestramente subiti. Lei, Jole, più grande del fratello, non sa distaccarsi dal paese dove i suoi coltivavano il tabacco e raccoglievano la melata scura e densa dalle api selvatiche. Nevada rimane luogo con i larici, gli abeti, con un ritmo lento e una magia incantevole. Il racconto molecolare di Righetto procede in modo molto agile. La meta da raggiungere, per i De Boer, è l’America, dove si favoleggia la presenza di patate giganti, di grappoli d’uva alti come bambini, di carne in abbondanza. L’imbarco a Genova è all’insegna del caos, finché una donna, Irma, non convince Jole a scegliere il Messico invece dell’Argentina, dove potrà aiutarla. In un serpeggiare di persone illuse e disperate, inizia il viaggio a bordo della San Cristoforo, un’imbarcazione “ciclopica, immensa, oscura”. E’ il 27 novembre 1898 e la traversata durerà un mese. Scrive Righetto sui sentimenti di Jole: “Con le mani sudate per la commozione strinse ancora più forte i tubi metallici della balaustra. Si sentiva smarrita innanzi alla vastità di quella immensa distesa d’acqua, eppure felice come se stesse rinascendo”. La terra promessa mantiene una certa armoniosità, nonostante gli aspetti drammatici quali la fame e la sete di uomini, donne e bambini che ricevono poca acqua e pane raffermo, il silenzio interrotto dalle grida di dolore di chi sta male e non raggiungerà il Messico. Il viaggio che sembra non finire più, rende il mare un sortilegio di streghe come i sabba nei paesi delle Alpi, appena qualche defunto viene gettato in acqua. Altri viaggiatori si ammalano gravemente e si diffonde la difterite, la tubercolosi. Jole torna indietro con la mente in una visione felliniana, un poco surreale: dove vanno a finire i ricordi, quando si muore? La realtà, però, è un’altra e incombe. Una volta sbarcati a Tampico, in Messico, i due fratelli vengono trasportati su due carri con ruote di legno trainati da un mulo e lasciati in un capannone che funge da ospedale da campo. In un ambiente insalubre che puzza di nafta e di sudore, le guardie controllano e portano via i malati, abusano delle ragazze. Affiora ancora la nostalgia, mentre un sacerdote veneto cerca di consolare Jole dicendole che la storia della cristianità è tutta una vicenda di nomadismo e di passaggio di confini. Ma il migrante soffre, ovunque vada, e sogna di tornare da dove è partito. Tra l’altro Jole deve nascondere a Sergio che i genitori non ci sono più e che non li raggiungeranno. L’Italia e il Messico sono connessi da un’epica parentale allungata nei decenni, in un’organicità che allinea la saga in un concentrato di amicizia, solidarietà, solitudine. Il segno che Jole aspettava, con la nascita di un figlio in una contrada dove abitano molti veneti, finisce per rinvigorirla: “Perché nella vita tutto può cambiare, ma non il mio vento. Io so che l’anima della frontiera non mi abbandonerà mai”.

 

LA TERRA PROMESSA
Matteo Righetto
Mondadori, 219 pp., 18 euro

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