Il groviglio esistenziale visto da Marguerite Duras

Giulia Ciarapica

I suoi romanzi pieni di immagini, di visioni che spesso si traducono in parola, ma che si traducono in silenzi onerosi, colmi di attese e di mancanze

A volte sono vuota per un tempo lunghissimo”, scriveva Marguerite Duras nei suoi appunti sparsi, “sono senza identità”, ribadiva, anche se un’identità, ben precisa, lei ce l’aveva. Un’identità leggera come il vento e pesante come la bufera. Lei era, ed è, la “scrittrice selvaggia e inattesa”.

 

Quando l’ho vista per la prima volta – una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo, lei giovanissima con i capelli raccolti e gli occhi aperti solo per metà – ho avuto come l’impressione di riconoscere qualcuno che non vedevo da tempo; a oggi non riesco a spiegare la sensazione che provai, ma mi colpì quello sguardo penetrante e al contempo fluido, perfino sfuggente, perso nel vuoto eppure agganciato a un punto fisso. All’epoca, avevo letto solo “L’amante” e “L’amante della Cina del nord”, conoscevo solo una piccola parte di quella scrittrice francese nata in Vietnam che, in modo quasi ipnotico, mi costringeva a penetrare nelle sue parole e a riconoscermi in ciò che diceva, in ciò che immaginava, in ciò che provava. Non uso a caso il termine “immaginava”, perché al di là del fatto che la Duras sia stata anche un’importante regista, i suoi romanzi sono pieni di immagini, di visioni che spesso si traducono in parola ma che ancora più frequentemente si traducono in silenzi onerosi, colmi di attese e di mancanze. Lì, dove la parola viene negata, vi è un buco comunicativo che Duras non si affretta a riempire, lasciando al lettore la responsabilità di rispecchiarsi in quella stessa negazione. Ho sempre avuto l’impressione, insomma, che ciò che Marguerite Duras metteva in scena nei suoi scritti fosse un groviglio esistenziale al quale lei stessa guardava con interesse e curiosità, forte del fatto che, come ha dichiarato in un’intervista, “non ho mai scritto credendo di farlo”, sforzandosi anzi – attraverso la forza della parola – di concretizzare e di portare alla luce quanto, fra le complicità del silenzio, non riusciva ad avere esistenza piena. Dunque il suo non è, né sarà mai, un flusso di coscienza; si tratterà piuttosto di scatti di (in)coscienza a cui si alternano in modo quasi ritmico corposi spazi bianchi, vuoti e silenti.

 

Tornano le assenze, tornano ciclicamente le mancanze, il vuoto si ripropone sotto varie forme, perché di questo è fatta la letteratura della Duras, di momenti minuscoli, eterni, non ripetibili, che segnano il passaggio definitivo dall’ora al mai più. Sono attimi estremi, punti di non ritorno, rovesci dell’anima che non è possibile arrestare.

 

Accasciarmi a terra e lasciare che il peso della vita mi schiacciasse senza che opponessi resistenza: questo è ciò che avrei desiderato fare mentre leggevo “La vita tranquilla”, secondo romanzo di Marguerite Duras risalente al 1944. Anche in questo testo, breve e pericoloso, si può rintracciare quel filo sottile che lega la scrittrice ai suoi libri: l’elemento autobiografico, e per l’esattezza il legame profondo, a tratti idealmente morboso, con uno dei fratelli. “Era ormai un disordine delle anime, del sangue. Non avremmo più potuto guarire, non lo volevamo più. Non sapevamo più voler essere liberi, eravamo dei sognatori, dei viziosi, gente che sogna la felicità e che una vera felicità lascerebbe abbattuti e sgomenti più di ogni altra cosa”: privazione, abbandono, silenzio, sono questi i motivi ricorrenti – e che ho ritrovato tradotti in termini reali, in parole – in un romanzo che racconta di nuclei familiari chiusi in se stessi e avvolti da una Noia esistenziale – disperata, esasperante, necessaria – di cui nessuno può fare a meno. La morte, che ricorre sempre nei discorsi della Duras, è nulla in confronto alla Noia e al logoramento quotidiano, anzi, è una presenza così netta e tangibile nella vita della protagonista che diventa parte stessa del corpo umano (“quando ci penso [alla morte] la sento annidata nel profondo delle mie viscere”).

 

La Noia di vivere è, insomma, più simile allo sfinimento provocato dalla mancanza che non a quel senso di morte che pure è sì presente negli scritti della Duras: ogni suo personaggio, minore o maggiore che sia, è una piccola grande isola, una solitudine costretta e desiderata che mai riuscirà a entrare in relazione con le altre solitudini, anch’esse costrette e desiderate. L’assenza di cui si nutre il vissuto di Marguerite è assenza di sé e da sé e, proprio per questo, appartiene a tutte le vite che lei sceglie di raccontare, vite che, alla fine, non sono che una riproduzione, alterata ma cosciente, di un’unica vita: la sua.

Di più su questi argomenti: