Il buon gusto da custodire nella repubblica dei social

Matteo Marchesini

Per custodire il valore e concepire una “istanza critica transnazionale” bisognerebbe credere in un’idea condivisa di umanità che all’orizzonte non si vede

Su un lettore italiano, i saggi di Marc Fumaroli possono avere un effetto liberatorio e quasi corroborante. Fumaroli è infatti il restauratore dei monumenti in mezzo ai quali noi ci muoviamo col misto di nausea e noia di Gian Burrasca che passeggia col cavalier Metello per i fori. L’apologia che lo storico francese tesse delle accademie, della loro retorica e delle allegorie mitologiche rinascimentali, barocche e neoclassiche, ci libera dall’ignoranza dei paesaggi troppo familiari, che di quella nausea e noia è figlia, e che appunto perché ci aliena dal nostro passato ci induce a perpetuarne inconsapevolmente i difetti, rendendoci in senso volgare “retorici”, “accademici” e “decorativi”. Nella sua “Repubblica delle lettere”, stampata ora da Adelphi, riacquistano un sapore stuzzicante le opere aride dei custodi di archivi, degli antiquari e dei copisti di epoche che si sentivano eredi legittime dell’antichità, e di cui l’Illuminismo ha spazzato via i contributi come fossero parrucche polverose. Ma il fatto è che le accademie e i miti di Arcadia e Parnaso, nati nell’Italia di Poggio e Ficino, hanno costituito un quadro socioculturale coerente solo migrando verso il nord, con l’aiuto di spiriti come Erasmo e Peiresc, mentre la nostra penisola diveniva una frazionata non-società. E’ nel corso di questa migrazione che la repubblica delle lettere, città transnazionale e transtemporale dei dotti, si fa proiezione ideale di una repubblica cristiana ormai divisa, creando le civili convenzioni della corte francese e la scienza di Cartesio; finché all’altezza di Bayle e dei primi periodici inizia a trasformarsi nella platea allargata dell’opinione pubblica. E qui Fumaroli mette l’accento su ciò che allora si perde: ossia il pensiero di un’élite in cui la saggezza non ha ancora divorziato dalla ragione, la misura umana della contemplazione non è stata espropriata dal metodo, e le arti dell’eloquenza non hanno subìto gli affronti delle estetiche metafisiche.

 

Tra ’700 e ’800 sfuma insomma quella cultura cenacolare di monaci laici che da Petrarca in poi aveva sostituito alla disputatio universitaria la conversazione e la sua eco scritta nei generi dell’epistola, del dialogo e dell’essai: “Le ‘Lettere’ di Petrarca sono l’abbozzo di un’autobiografia morale per frammenti. Nelle sue origini italiane la lettera umanistica era già un ‘saggio’ nel senso di Montaigne, perché affrontava ogni argomento partendo dalle riflessioni di un io centrale, solo principio di unità in quella capricciosa diversità”. Contigua a queste scritture è quella dell’elogio, del ritratto e della vita vasariana, dove la verità non sta nei singoli fatti o nelle cause sociopsicologiche ma nel senso dell’aneddoto, nel tratto memorabile di un carattere. Lungo l’età moderna, nota Fumaroli, il genere vira verso la biografia (da Boswell a Sainte-Beuve) e poi muore quando la persona comincia a esser vista come puro involucro o menzogna, e viene scomposta in pezzi di storia sociale o di psicologia del profondo, mentre il pantheon dei grandi è sommerso da una massa di “celebrità” insieme variopinta e monotona, da un accumulo effimero e incoerente di notizie che anziché accrescere la nostra conoscenza e il nostro gusto per l’esempio o la leggenda finisce per opprimerci. Descrivendo questo processo, lo storico accenna alla “Principessa di Clèves” come a una risposta femminile e intima ai medaglioni e ai mémoires degli illustri uomini pubblici. Si potrebbe aggiungere che oggi, al termine della sua parabola, la narrativa moderna torna come alle origini a truccarsi da “vita”. Solo che non confida più nell’analisi comparata di psiche e società, nel plot come sistema di concause. Così gira intorno a un’esistenza come a un mistero ineffabile (Carrère, Sebald) o propone una parodia dei concisi profili classici (le “Vite di uomini non illustri” di Pontiggia): in sostanza, elude il romanzesco proprio mentre le “vere” stories dei social abusano di tutte le sue risorse più kitsch.

 

E a proposito di social.

 

Fumaroli osserva che la repubblica delle lettere servì a tramandare un buon gusto e una cultura raffinata quando l’invenzione della stampa rischiò di seppellire il valore letterario in un oceano sterminato di libelli violenti e cialtroni. Nel XXI secolo può accadere lo stesso? Il problema è che per custodire il valore e concepire una “istanza critica transnazionale” bisognerebbe credere in un’idea condivisa di umanità che all’orizzonte non si vede. Provate a immaginare un Aldo Manuzio di Facebook.

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