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Elogio dello scrittore stupido

Marco Archetti

Un romanzo deve avere voce propria, non canterellare il falsetto dello scrittore che se ne fa ventriloquo. Un romanzo è più il risultato della stupidità (cioè di altre qualità) dello scrittore, che di una sua operazione di intelligenza

"Ogni giorno attribuisco minor valore all’intelligenza”. Parole sante e rinfrescanti, queste che Marcel Proust scrisse e che l’editore Gallimard pensò di pubblicare in un’edizione del 1954, a prefazione postuma del suo “Contro Saint-Beuve”. “Ogni giorno”, spiegava l’Eccelso Panificatore del tempo perduto (scoperta recente: trasformò nell’emblematico biscottino della terza stesura, il pan grillé della prima), “mi rendo conto che soltanto prescindendo da essa lo scrittore può cogliere qualcosa di se stesso e la sola materia dell’arte”. Evviva – ho pensato leggendo –, finalmente un elogio dello scrittore stupido! Perché sì, è il momento di confessare: io appartengo a quella categoria di lettori cui non piace lo scrittore troppo intelligente. O meglio: che non gli crede. Anzi, diciamola tutta: io fuggo a gambe levate dallo scrittore troppo intelligente. Si obietterà che la scrittura è atto iper razionale, ultra ordinatore, assai geometrico. E per carità, lo è. Ma nego che lo sia in via esclusiva, non tanto perché la giostra narrativa, questa divertente macchina aerostatico-verbale, si alimenta anche di altri carburanti (improvvisazione, conigli, cilindri, reminiscenze, paralogismi, ready made esistenziale), quanto perché l’intelligenza è tutto nei risultati solo se è nulla nelle intenzioni: intelligente dev’essere l’opera, non l’autore. Tutto ciò che glorifica l’autore, nega l’opera. L’autore che sottomette l’opera per manovrarla a proprio piacimento – a proprio ragionamento – non scrive un romanzo, ma sfoga una tesi, sbriglia una dottrina o, poveretto chi legge, infligge un’orazione. Un romanzo è materia non premeditabile, al contrario, è recalcitrante e sfuggente come il mercurio.

 

Un romanzo, come Diogene l’uomo, lo si cerca a lungo tra le pieghe di quel lunatico, deforme, indomabile guazzabuglio che uno scrittore scrive ogni giorno e che romanzo ancora non è. Un romanzo lo si insegue mentre scappa, e scappa quanto è più forte la tentazione autoriale dell’ego scambiato per genio. Un romanzo deve avere voce propria, non canterellare il falsetto dello scrittore che se ne fa ventriloquo. Lo dirò chiaramente: un romanzo è più il risultato della stupidità (cioè di altre qualità) dello scrittore, che di una sua operazione di intelligenza. Proust parlava dei più noti capolavori come “rottami naufragati di grandi intelligenze”, più modestamente io ho l’impressione che i grandi romanzi siano tali quando mi sembrano compiere questo prodigio: esprimere una miracolosa forza intrinseca – non esterna, non autoriale, non volontaria. E’ il romanzo che deve servirsi dell’autore, non il contrario. Franz Kafka non ha imposto la sua intelligenza alla “Metamorfosi”, ma l’ha servita. Stephen King è andato fin dove “IT” l’ha condotto, non ha intromesso se stesso in ogni fessura, dilagando sulla pagina. Il finale di “Herzog”, capolavoro di Saul Bellow, ha molto da insegnarci proprio perché racconta questa salutare resa dell’intelligenza – la resa di una cultura delle idee come mezzo esclusivo per comprendere la vita e raccontarla. Nelle ultime righe, Moses smette di monologare, smette di ragionare, e finalmente intuisce una verità della vita, abbandonato in poltrona a guardare la trama della zanzariera mentre la signora Tuttle spazza il vialetto. Quanto a Marcel Proust, il vialetto della questione lo spazzò così: “Se nella gerarchia delle virtù l’intelligenza occupa il secondo posto, solo lei è in grado di proclamare che l’istinto deve occupare il primo”.

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