La posa di pietre d'inciampo a Napoli (Ansa) 

uffa!

Il dramma di quegli ebrei così italiani, ma braccati. Pagine dal diario di Luciano Morpurgo

Gaimpiero Mughini

La senatrice a vita Liliana Segre ha avanzato il sospetto che a furia di parlare di persecuzione, qualcuno in Italia si stufi. E tuttavia, non può non risultare sconvolgente quello che accade dopo le leggi razziali. Si rilegga "Caccia all'uomo", di un grande fotografo ed editore

Nella settimana segnata dalla ricorrenza del Giorno della Memoria (27 gennaio) la senatrice a vita Liliana Segre – una delle persone più discrete della nostra attuale scena pubblica – ha avanzato il sospetto che a furia di parlare di persecuzione degli ebrei qualcuno in Italia si stufi. Non dimentichiamoci che gli ebrei sono stati quantitativamente poca cosa nell’Italia del Novecento, 45 mila su una popolazione vicina ai 50 milioni di abitanti. Se pensate che nella Romania dell’epoca gli ebrei erano 750 mila su 18 milioni di abitanti, capirete la differenza. In Italia non è mai esistito un problema ebraico, non ce n’erano i presupposti e seppure quello romano fosse il più antico ghetto d’Europa. Tanto più caddero del tutto inaspettate per la gran parte degli stessi fascisti (figuriamoci per quelli che erano assieme fascisti ed ebrei) le leggi razziali del novembre 1938. Da cui scaturì un antisemitismo italico cialtronesco, il cui esponente più vistoso fu il prete più tardi spretato Giovanni Preziosi (nato in provincia di Avellino nel 1881), il quale nel 1920 si era dichiarato convinto della verità di quanto raccontato nel libro Protocolli dei Savi anziani di Sion (l’inenarrabile porcata artefatta a cavallo tra Ottocento e Novecento  dalla polizia zarista) e dunque dell’esistenza di un complotto ebraico mondiale. Di quel libro curò la prima edizione italiana, nel 1921, le cui vendite furono miserevoli sino al 1937. Dopo le leggi razziali del 1938 Preziosi divenne l’interlocutore privilegiato dei tedeschi. Finché, a guerra ormai conclusa, lui e sua moglie non si buttarono giù da una finestra dell’appartamento milanese in cui erano andati a vivere ai tempi di Salò.

E pur tuttavia, altro che la noia temuta dalla senatrice Segre, non può non risultare sconvolgente quello che accade nell’Italia successiva alle leggi razziali. Tutto d’un botto per uno studente ebreo che andava a scuola e che d’ora in poi non ci poteva andare più o magari si sentiva chiedere dalla sua professoressa di andare in fondo all’aula per non contaminare gli studenti “ariani”, per un negoziante ebreo che aveva le sue vetrine su strada e che rischiava di vedersele sconquassare, per un editore ebreo che ci teneva alla sua identità (Angelo Fortunato Formiggini morto suicida il caso più clamoroso), per un funzionario di stato che dall’oggi all’indomani perdeva il suo stipendio, per una famiglia di ebrei anziani che non potevano più dar lavoro alla fidatissima governante “ariana” che da anni li accudiva, da un giorno all’altro fu l’inferno. Una famiglia ebrea che allora abitava a pochi metri dalla mia attuale casa romana, da un giorno all’altro si affacciò al balcone e vide che la famiglia attigua alla loro aveva messo in bella mostra un cartello che dava addosso agli ebrei.

Una testimonianza drammaticissima e giorno per giorno di quei mesi e di quegli anni sta in un libro pubblicato nel 1946 che credo pochi conoscano e che ho potuto comprare fortunosamente, Caccia all’uomo. Pagine di diario 1938-1944 di Luciano Morpurgo. Nato a Spalato da antica famiglia ebraica nel 1886, uno che è stato fra i più importanti fotografi italiani tra le due guerre e di cui è immane il fondo fotografico custodito in varie istituzioni culturali italiane. Leggendario è il suo reportage fotografico del 1927 da una Palestina alla quale stava cambiando volto l’afflusso di ebrei europei che vi si rifugiavano numerosi. Nel 1938 Morpurgo aveva appena pubblicato un libro per l’infanzia, Quando ero fanciullo, che dopo le leggi razziali i librai si rifiutavano di esporre. Ancora un anno dopo, Benedetto Croce che quel libro lo aveva letto gli scrive così: “Vorrei sperare (ma sarà troppo candida speranza, data la tristitia dei tempi) che la fortuna con la quale fu meritatamente accolto, ancora in qualche modo gli continui”. Morpurgo avvia in quei giorni il suo diario le cui pagine lui cela accuratamente nel rifugiarsi da una casa all’altra, da una località all’altra e questo fino all’arrivo degli Alleati a Roma nel giugno 1944. I primi mesi dopo l’avvento delle leggi razziali Morpurgo non se ne dà pace, insiste nel partecipare a un incontro di editori malgrado gli avessero raccomandato di non farlo, li affronta uno a uno – e mi immagino i volti e gli sguardi di quegli italiani che avevano perduto ogni dignità nell’assecondare i dettati di un governo divenuto osceno – e da italiano della Dalmazia invia a Mussolini una lettera in cui gli comunica il suo stupore che quanti “sentono il doppio orgoglio d’essere italiani e d’essere ebrei” siano “differenziati” dai loro fratelli italiani nonché il suo dolore per il fatto che siano stati chiusi i Comitati di soccorso agli ebrei espulsi dalla Germania. Il Duce era il tipo che le leggeva queste lettere. E difatti a Morpurgo arrivò una risposta del segretario particolare di Mussolini in cui gli si diceva che la lettera era stata inviata per competenza al ministero dell’Interno. Non solo: i comitati per l’accoglienza ai profughi ebrei vennero riaperti.

Morpurgo ebbe fortuna dal 1938 al 1940. Nessun tedesco gli arrivò addosso, lui sopravvisse. Per ciascun ebreo italiano la linea divisoria tra la morte e la sopravvivenza era divenuta sottilissima. Alla sera del 15 ottobre 1943 due adolescenti ebrei romani di nome Mieli rimasero a dormire dai loro cugini, i Sabatello, che abitavano a quaranta metri di distanza. Quella notte dai Sabatello padre e madre non dormirono invece cinque dei loro otto figli. Alla mattina successiva i nazi arrivarono poco dopo le cinque del mattino e presero i genitori Sabatello, i tre figli, i due cuginetti rimasti a dormire al 240 di viale Trastevere anziché tornarsene al 246 di viale Trastevere, dove i nazi quella mattina invece non andarono. Nessuno di loro sopravvisse alla retata. Il caso salvò gli altri cinque Sabatello.

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