uffa!

Una foto può raccontare un'epoca e spiegare tutta la banalità del male

Giampiero Mughini

Uno scatto di Tano D'Amico ha ritratto la più giovane donne kamikaze palestinese. La storia di un popolo e di una vendetta che vale davvero poco 

Alle pareti della camera da pranzo della mia casa romana ho voluto che ci fossero le tracce fotografiche di alcune tragedie novecentesche come conficcate nella mia memoria e nella mia anima. Quando seggo al tavolo da pranzo (dove non siamo mai più di sei commensali) ho di fronte agli occhi una parete dove ci sono tre di quelle immagini. Una è una foto di Tano D’Amico che raffigura il cadavere di un terrorista dei Nap, Antonio Lo Muscio, che s’era appena scontrato a fuoco con una pattuglia dei carabinieri, dai quali era ricercato per avere ucciso a sangue freddo il ventunenne agente di polizia Claudio Graziosi. La seconda è un adesivo confezionato a Torino dai terroristi di Prima linea a commemorare i loro compagni “Carla” (Barbara Azzaroni, 29 anni) e “Charlie” (Matteo Caccegi, 20 anni) caduti il 28 febbraio 1979 in uno scontro con la polizia all’interno del Bar dell’Angelo a Piazza Stampalia a Torino: sull’adesivo erano le foto dei due ragazzi e la dizione “…che mille mani impugnino le armi dei compagni CARLA e CHARLIE caduti combattendo per il comunismo”. La terza era un’altra foto di Tano D’Amico che ho appena spostato per far posto alla foto – comprata da un libraio perugino – di un ometto ritratto a mezzo busto da dietro mentre sta rassettando la sua biancheria sulle grate della finestra della sua cella. Porta gli occhiali e la cima del capo è completamente calva. Il suo nome è Adolf Eichmann. Più “banalità del male” di così.

 

La cella mi immagino fosse quella della prigione israeliana di Ramla dove lo sorvegliavano 22 agenti israeliani e dove Eichmann ha trascorso gli ultimi sei mesi della sua vita. Aveva 56 anni quando poco prima della mezzanotte del 31 maggio 1962 lo vennero a prendere per eseguire la condanna a morte per impiccagione, l’unica mai pronunziata dallo stato di Israele ai danni di un civile. Nel 2011 una regista israeliana girò un documentario, “The Hangman”, dove interrogava a lungo Shalom Nagar, l’ebreo yemenita che aveva 26 anni quando era stato uno dei due boia a far scattare la corda che spezzasse il collo di Eichmann. Sino a quel momento Nagar non aveva mai aperto bocca relativamente agli ultimi istanti di vita del condannato. Alla regista israeliana raccontò che Eichmann morto aveva gli occhi di fuori “grandi e fissi” come se lo stesse guardando. Mai più Nagar aveva voluto bissare l’esperienza del “boia”.

 

Ho detto che per molto tempo al posto dov’è adesso la foto di Eichmann c’era stata un’altra foto di Tano D’Amico. Quelle di Tano non sono foto che catturano un istante, e bensì vanno al cuore di un’epoca e la raccontano. Se ci siamo abituati a pensare al “Settantasette” italiano come a una data chiave della nostra storia recente, lo dobbiamo fondamentalmente a tre artisti, il fotografo D’Amico, l’illustratore Andrea Pazienza, lo scrittore Pier Vittorio Tondelli. Tano, che sa scrivere oltre che fotografare, la sua poetica l’ha raccontata in un suo libro recente: “Guardo alle immagini con gli occhi del mendicante, del miserabile che chiede aiuto in questa vita. Che ha bisogno di compagnia nella solitudine di questa vita. Spero mi facciano compagnia anche nella morte”. E difatti la foto che Tano aveva scattato la volta che era stato a metà degli anni Novanta nel campo palestinese di Deisha a Betlemme mi aveva tenuto a lungo compagnia dalla parete di fronte a dove io mi seggo al tavolo da pranzo di casa mia. Era l’immagine di una ragazzetta palestinese di dieci o dodici anni che aveva un atteggiamento quanto di più vezzoso, come di una che ami la vita e ci tenga a farlo sapere al suo prossimo.

 

Il suo nome (Tano lo saprà anni dopo, quando visiterà di nuovo il campo palestinese e gli diranno che cosa ne era stato della ragazzetta da lui fotografata) era Ayat al Akras. Aveva 18 anni ed era una brillantissima studentessa che sognava di diventare giornalista quando, alla mattina del venerdì 19 marzo 2002, uscì di casa dicendo alla madre che andava a scuola e invece s’era data appuntamento con un terrorista palestinese che le consegnò una borsa con dentro l’esplosivo e le indicò il supermercato di Gerusalemme frequentato dagli ebrei dove andare a farsi esplodere. E questo non senza prima registrare un video dove rimproverava gli eserciti arabi di starsene con le mani in mano mentre lei stava per offrire la sua vita alla causa della liberazione palestinese. Alle 14 e qualche minuto Ayat arriva alla porta del supermercato Kyriat HaYovel. Ha il tempo di avvertire due donne arabe che avevano un banchetto con del cibo ad allontanarsi. La cosa mette in sospetto il cinquantacinquenne ebreo israeliano Haim Smadar che alla mattina era stato chiamato a fare da guardia di sicurezza del supermercato, giusto innanzi alla porta di entrata. Lui si avvicina alla ragazza, la intercetta, forse non ci accorge che accanto a lei è entrata una bellissima ragazza israeliana, Rachel Levy, che di anni ne ha 17 e che è venuta a comprare del cibo per il pranzo familiare dello Shabbat. (C’è un bellissimo romanzo di Gabriella Ambrosio, il Prima di lasciarsi del 2004 tradotto in arabo e in ebraico e adottato da scuole di entrambi i popoli, che questa storia la rievoca minuto per minuto.)

 

A questo punto Ayat potrebbe desistere perché il suo scopo era fargliela pagare agli israeliani mettendone a morte decine e decine. E invece si trova di fronte un solo uomo e accanto una sua coetanea, una vendetta che di per sé vale poco. Ma è tale la sua ostinazione nel darsi la morte ancor prima che provocare la morte degli altri, che il bottone lo preme lo stesso e vanno in pezzi solo loro tre, e a parte alcune decine di feriti fra gli israeliani che se ne stavano più lontani. In ordine cronologico Ayat era la terza donna kamikaze palestinese epperò la più giovane di tutte. La Ambrosio ha costruito il suo racconto dopo aver parlato a lungo con Abigal Levy (la madre di Rachel), con Samir al Akrhas (il padre di Ayat), con Shohama Smadar (la vedova della guardia di sicurezza). Le famiglie delle due ragazze, che vivevano a quattro miglia le une dalle altre, avevano mangiato entrambe pane e terrore in Israele. Il cugino di Rachel era morto in un attentato terroristico a un posto di blocco, e questo un mese prima della morte di Rachel. Lei era una ragazza che si teneva lontana dalla politica, le sue passioni erano la musica e la fotografia. Sua madre dice che nella loro famiglia non c’era alcun odio per i palestinesi, che avrebbero voluto vivere in pace con loro.

 

L’altra ragazza era cresciuta nell’inferno di un campo profughi, un’intera famiglia di undici figli stretta nello spazio di cinquanta metri o poco più. I soldati israeliani che potevano piombare da un momento all’altro, minacciare, talvolta uccidere per sbaglio, come accadde a un vicino di casa della ragazza kamikaze, ucciso mentre in casa stava giocando con i suoi bambini da una pallottola vagante e questo due settimane prima che lei si facesse esplodere. Un fratello maggiore di Akras era stato arrestato due volte per essere andato addosso a dei soldati israeliani. Ayat era fidanzata e avrebbe dovuto sposarsi pochi mesi dopo di quando andò incontro alla morte.

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