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Il traduttore è il nuovo influencer
Di recente è uscito un romanzo di un premio nobel e sotto la nota biografica dell'autore, c'era anche quella della traduttrice, anche più lunga. E’ quasi come se il fenomeno dell'esaltazione del traduttore nascesse per senso di colpa e per compensazione
Uno spettro si aggira per le librerie, ed è l’esaltazione del traduttore. L’effetto somiglia a quello che vediamo nei musei delle ex potenze marittime del ‘600 verso i manufatti dei popoli colonizzati. Il traduttore è una vittima che finalmente trova la sua voce. L’Italia è sempre stato un paese di importatori – pensiamo alla celebrità di Fernanda Pivano. E poi son tanti i nomi istituzionalizzati saliti sull’Olimpo delle lettere e sulle tote bag passati per il duro lavoro del trasporre un testo da una lingua a un’altra, dal Cesare Pavese che si buttò su Moby Dick (con risultati mediocri) alla gang einaudiana trascinata zoppamente a tradurre tutta la Recherche – un volume alla Ginzburg, uno a Fortini, ecc., contro l’idea dell’unità dell’opera (molto meglio il lavoro fatto dal poeta Raboni, per i Meridiani, se si vuole leggere Proust in italiano e non come Alain Elkann che si porta sempre in treno le Pléiade rilegate in pelle). Einaudi ci fece anche una collana, Scrittori tradotti da scrittori, che è un po’ un modo per ricordare che nella penisola solo con la scrittura non si vive, bisogna anche fare altro – Fortini ad esempio faceva le pubblicità per Olivetti (quelle sì, splendide). Forse il riconoscimento del traduttore è uno dei rarissimi casi di wokismo che ha attecchito da noi, il traduttore e la traduttrice sembrano stati scelti come minoranza da glorificare, come quando Lacoste ha sostituito il coccodrillino con varie specie in via d’estinzione, come il rinoceronte di Giava o il condor californiano. Ci sono case editrici, come il Saggiatore o Voland, che non dimenticano mai di scrivere sulla copertina “traduzione di…” . Di recente è uscito il romanzo di un premio Nobel per un grosso editore italiano. Nella quarta, sotto la nota biografica dell’autore, c’è quella della traduttrice, che è pure più lunga. E’ come se gli allori fossero da condividere equamente.
Non va certo dimenticato il ruolo centrale di chi deve scapigliarsi pur di trovare fluffy, sketchy, lame o cool, ma l’effetto è quello dei fotopost che ricordano “la donna dimenticata che ha contribuito al lancio dell’Apollo 11”. Questo hype si vede anche nelle recensioni. Non ci si dimentica mai di citare chi traduce, farlo è immorale, e solitamente si scrive “ottima traduzione di …”, “magnificamente tradotto da…”, “nella traduzione eccezionale di…” anche se il recensore non ha idea di come fosse l’originale, soprattutto se in coreano o in russo. E’ quasi come se il fenomeno, amichettisimi e markette a parte, nascesse per senso di colpa, e per compensazione. La cosa, come tante, nasce anche dalla mimesi provinciale del mondo anglosassone dove di recente c’è stato un riconoscimento pubblico di chi traduce – pensiamo alla celebrità di Ann Goldstein, voce inglese di Elena Ferrante, e da alcuni scambiata per la vera autrice – ma che a New York è causato dal fatto che fino a ieri l’altro le traduzioni erano rare. Giusto qualche classicone o best seller straniero arrivava in libreria e si leggevano soprattutto autori anglofoni – ma ora il romanzo americano è in crisi e gli hipster stanno scoprendo Calvino, Lessico famigliare e Tove Ditlevsen. Tutta questa celebrazione a casa nostra va di pari passo con lamentele interne nei corridoi delle case editrici italiane – gli editor devono rimandare indietro il file “perché, dai, qui si vede che l’hai fatta con ChatGpt”.