Pieter Bruegel il Vecchio, “La torre di Babele”, 1563 (Wikipedia) 

il foglio del weekend

Tutte le parole del mondo

Cettina Caliò

Alla Fiera del libro di Francoforte si parla del mestiere del traduttore, migliore là dove non si vede. Perché gli scrittori gli devono molto

"Senza i traduttori sarei una frazione dello scrittore che sono”, ha di recente dichiarato l’autore pakistano Mohsin Hamid alla Fiera internazionale del libro di Francoforte, la Buchmesse, la più prestigiosa tra le fiere europee del libro, che quest’anno ha come titolo: “Tradurre. Trasferire. Trasformare”. La traduzione è elevata a modello perfetto di comunicazione. “E’ qualcosa di magico – aggiunge Hamid – sui muri che vengono eretti apre porte e finestre”. In un mondo sempre più piccolo, dove il dialogo stenta ad aprirsi un varco, e troppo spesso la parola genera sospetti e malintesi, l’importanza della comunicazione, che passa anche attraverso la traduzione, assume un ruolo determinante, si fa luce in questo tempo così notturno e turbolento.

 

La parola, abbiamo già avuto modo di dire, è una forma imperitura di resistenza, “la pena quando la pena ci duole e il sogno quando il sogno ci culla”, è un potente farmaco nel senso etimologico del termine: rimedio e veleno, la parola è corporea, ha una sua fisicità e passa attraverso il setaccio delle nostre esperienze e delle nostre visioni, mentre passo dopo passo incappiamo nella complessità dei luoghi dell’esistenza, coccoliamo illusioni, e la verità pare che se ne stia sempre sotto un altro lampione. Nei libri, la parola passa attraverso lo scrittore – “un paesaggio sfigurato fra cielo e terra” – che di parole vive e tratteggia volti e storie e luoghi in cui ci si può specchiare e ritrovarsi, perché “ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso”, pertanto la scrittura è sempre scrittura di se stessi, in fondo, e anche quando si dicesse delle abitudini alimentari degli animali a rischio di estinzione, è la vita, la nostra, che passa nei libri, “non piango per nessuna cosa che la vita porti o rapisca. Invece ci sono pagine di prosa che mi hanno fatto piangere”, e la letteratura tutta intera è uno smisurato serbatoio di vite, è per questo che i libri sono un’estensione della memoria, sono mondi da esplorare. “Ci sono figure di altri tempi, immagini-fantasmi di libri che sono per noi realtà maggiori di certe insignificanze che ci sfiorano passando nel caso morto delle strade”. Sono un viaggio, i libri, uno dei più affascinanti, ci insegnano la misura del dire le cose che davvero contano, ci consentono di andare lontano, vivere altre esistenze, e diventano incantevoli quando si fanno maestri e bussola e ci indicano la strada, si fanno strumento del pensiero, “oggi sono consapevole del cielo”; quando riescono a narrare di un sé per dire di un noi. E diventano biografia, come ogni cosa che ci attraversa. Là dove tutte le cose hanno “durata di fumo, passaggio di orme”, un libro, una volta letto, rimane in noi a dispetto di ogni cosa, perfino del tempo che, per sua natura, porta via tutto. “Ogni cosa che è stata nostra, seppur solo per accidente di convivenza o di visione, appunto perché è stata nostra diventa noi stessi”. 

 

Tutte le citazioni presenti sono tratte dal “Libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa, che ha fatto di sé “una scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi”. Voglio parlare di traduzione intercalando un testo perché è nel mio modo espressivo e per dimostrare, ancora una volta, quanto certe pagine siano risonanti e capaci di aderire al nostro dire. Questo è uno di quei libri che si potrebbe definire “da comodino”, nella traduzione di Antonio Tabucchi e Maria José de Lancastre. Parliamo della vita dietro le parole, “la vita monotona e imprescindibile. Legiferante e sconosciuta,” parliamo quindi di libri e di traduzione – lo facciamo per esperienza diretta, essendo chi scrive un traduttore –, traduzione che è produzione di testi da un codice all’altro, semplicemente per considerare che tutto è traduzione, tutto è trasferimento, in ogni circostanza. Viviamo in un mondo in cui c’è sempre una guerra in corso, un vasto sistema di incomprensioni e figure ridicole, e c’è anche un eccesso di barbarismi, neologismi, e quindi diventa necessario il quotidiano bisogno di tradurre, è traduzione perfino la realtà che viene trasferita, ci viene narrata, e la narrazione della realtà spesso pare avere più peso della realtà nuda e cruda. La vita stessa è in traduzione, dalla traduzione del nostro codice genetico alla traduzione del pensiero in azione, quell’essenziale e non sempre certo passaggio dalla parola ai fatti. “Noi viviamo attraverso l’azione, attraverso la volontà. Noi, coloro che non sanno volere”.

 

La comprensione di ciò che ci sta intorno, che ci passa davanti, è visione, e vedere è un atto concettuale, poiché vediamo quello che sappiamo, e la comprensione che ci occorre nel percorso dell’esistenza è anch’essa una forma di traduzione. Il traduttore è prima di tutto un lettore, è quella persona che, magari, se ne sta in pantofole davanti a un computer, si scontra con la pagina e spesso batte le corna per ore su un passaggio, una singola parola la cui resa risulta ostica, e svolge una professione precaria, quindi in linea con la struttura della vita – come molte altre –, deve coltivare la pazienza, la curiosità e il dubbio (quella sola via per arrivare al vero), conosce il sacrificio, lo sforzo dell’intelletto e l’esercizio dell’attenzione che questo viaggio avventuroso implica. Deve capire, di volta in volta, chi e cosa e dove si va a parare. “Mi srotolo come una matassa multicolore oppure invento con me stesso delle figure di spago… l’unica cosa che mi sta a cuore è che il pollice non sbagli il laccio che gli spetta”. Ha la consapevolezza che non si può mai dare nulla per scontato nella traduzione, come nella vita, dove purtroppo la presunzione è talvolta struttura portante, fino a quando poi la vita non decide di rimetterci in riga. Ha l’umiltà, il traduttore, di mettersi in discussione e il privilegio di un confronto continuo con se stesso e l’autore, quindi ha la possibilità di un arricchimento costante, e la responsabilità di restituire al meglio un testo.

 

Il traduttore è l’interposta persona, è in vece dell’autore, e in molti casi lo rappresenta dignitosamente. Sono convinta che se Edmond Rostand avesse letto la traduzione di Mario Giobbe del suo “Cyrano de Bergerac”, avrebbe assai apprezzato la brillante restituzione della sua voce nella nostra lingua, la stessa che Napoleone usava per parlare d’amore e che noi da parecchio ormai bistrattiamo malamente. Sergio Claudio Perroni – che fu eccellente traduttore dal francese e dall’inglese, e che mi onoro di considerare mio maestro in questo mestiere – sosteneva che una bella traduzione è quella che pare nata nella lingua in cui è stata trasferita. Quando il lettore dimentica che sta leggendo un testo tradotto, quando ci si imbatte in una bella scrittura nella forma, nello stile e nel suono, allora il traduttore vince. La traduzione è in fondo un’assurdità, e anche in questo caso ricorda la vita e le sue evoluzioni, ma si tratta di un’assurdità necessaria perché la lingua non è un linguaggio universale, è un codice e pertanto necessita di uno strumento di accesso, e quello strumento è proprio la traduzione. E’ un servizio di apertura, che ci conduce alla conoscenza di cose che diversamente ci sarebbero precluse. Si tratta di un trasferimento da una lingua a un’altra da una scrittura a un’altra da una bellezza a un’altra.

 

La traduzione diventa incanto quando, per grazia, si ha una restituzione della bellezza al presente: “Mirror, mirror on the wall, who’s the fairest of them all”, noi conosciamo questo passaggio, da Biancaneve dei fratelli Grimm, come: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame”, a proposito di bellezza restituita al presente, in ogni senso. La traduzione orienta il pensiero nella misura in cui ad essa ci affidiamo, e sappiamo altresì che errare è umano, abbiamo scoperto che il cammello che passa per la cruna dell’ago è probabilmente una corda, un’iperbole meno eccessiva. Adesso non chiediamo più a Dio di “non indurci in tentazione”, ma di “non abbandonarci alla tentazione”, e c’è una leggera differenza… Accade anche di imbattersi in trasferimenti infausti o degni del miglior teatro dell’assurdo, che possono risultare comici, cito per affioramento, dal vero, senza fare nomi: “Ti ho detto di non familiarizzare con sempre meno gente!”, dove “sempre meno gente” (lesser people) è la “servitù”. “Sempronio è stato fermato dalla polizia perché aveva l’influenza, la polizia lo ha intervistato durante la notte”, dove “’l’influenza” era “sotto l’effetto di sostanze stupefacenti” e la polizia che intervista, era la polizia che interroga. Succede, temo, quando la pigrizia, la superficialità bilaterale (nei confronti della lingua sorgente e della lingua di destinazione) e la mancanza di attenzione, bilaterale anche questa, hanno la meglio, un po’ come quando si leggono i titoli dei quotidiani e ci si convince di aver letto l’articolo da cima a fondo e si pontifica al riguardo in ogni dove col piglio del tuttologo. Può succedere che un “copy-cat” (semplicemente un “tizio” o, nel gergo della polizia, un “delinquente” che imita il modus operandi di criminali famosi), diventi un “gatto copione”, o scoprire che ad Elvis Presley piacevano i biscotti “ghiacciati”, anziché “glassati”. Accade pure che la lingua progredisca, in un certo senso, in seguito a errori di traduzione: “l’obiettivo sensibile” viene fuori da “sensible” che è “delicato”.

 

Straduzione a parte (così la definiva Perroni), in ogni passaggio c’è una perdita inevitabile, esattamente come quando si vive, e il traduttore coscienzioso cerca di ridurre al minimo quella perdita, perché ogni perdita è, per forza di cose, una diminuzione di valore. “Saper dire, saper esistere attraverso la voce scritta”. Ci si affeziona alla voce dei libri che si leggono e a quelli che si traducono, anche quando ci si imbatte in libri meno belli di altri, in autori meno brillanti di altri, per il traduttore il testo diventa un bimbo che si porta per mano dall’altra parte di una strada in cui è sempre l’ora di punta. E’ ingenuo, è noto, pensare che la traduzione si risolva in una copia dell’originale, un calco. La traduzione è di fatto un genere letterario, non è esattamente l’opera, è più un percorso verso l’opera, suscettibile di compensazioni e adattamenti vincenti lungo la strada: “l’apostrofo rosa tra le parole t’amo”, del Cyrano di Rostand, è in origine “un punto rosa che mettiamo sulla i del verbo amare”. E’ un lavoro che non si smette mai di imparare, un continuo cammino verso una destinazione. Nella lingua spagnola destinazione si traduce con destino. E ancora una volta è vita: un percorso dentro ai giorni, che si apprende strada facendo, un tentativo di esistenza. Rigore e passione sono la cifra della traduzione, e anche della vita vissuta degnamente. “Poter saper pensare! Poter saper sentire!”. Si tratta sempre di leggere e pensare, il testo e il mondo che ci ospita, “il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua”, si tratta di inclinazione al buon gusto, di avere orecchio e ossessione (come nella vita).

 

La traduzione è apertura verso nuovi mondi, posto che la lingua è identità socio-culturale, “la mia patria è la mia lingua”, è una diversa struttura del pensiero, un mutamento di universo: il tedesco aggancia le parole come fossero vagoni di un treno che compongono frasi lunghe il cui senso è chiaro solo alla fine, perché è lì che si trova il verbo. Nella lingua ebraica il verbo essere non si coniuga al presente. E’ come se l’ebraico affermasse che non si può essere al presente. Si può pensare, fare cose, ma non essere. Quindi – in questo caso linguistico – so che sono stato, che sarò, ma non sono. E in questo senso la lingua ci aiuta a guardare e capire il mondo in cui viviamo o col quale veniamo in contatto. E’ storia di altri luoghi, di altra gente. La lingua, nella sua luminosità di carta, si fa libro. E i libri, ci ricorda ancora Pessoa, “sono giorni, un alfabeto profetico od occulto… parole fatte di gente, la strada è un libro”. Nella traduzione, come nella vita, occorre la passione per la liturgia della parola e per ogni cosa che sta dietro e dentro alla parola. Dietro la parola c’è la consapevolezza di tutta la gente – così diversa e così uguale – che compone l’umanità, e c’è l’accecante verità che “passeremo tutti, passerà tutto. Nulla resterà di colui che usava sentimenti e guanti, di colui che parlava della morte e della politica locale”, pertanto bisogna educarsi assai. E questo è un dato che vale sempre. L’educazione alla comprensione è uno strumento per affrontare al meglio il testo e la vita, ne suggerisce molteplici interpretazioni, consente di “dare a ogni emozione una personalità, ad ogni stato d’animo un’anima”.