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Terrazzo

L'unica vera arte è rotonda. In morte di Arnaldo Pomodoro

Giulio Silvano

È stato riconosciuto come "il più grande scultore vivente", il simbolo della provinciale monumentalità senza volto della nostra epoca. Non ha mai celebrato una parte o un'altra, per questo non è mai stato politicizzato. Le sue opere – ha sempre detto – "sono sogni"

Impossibile non finire in qualche piazza italiana, qualche non-luogo tra un ufficio della provincia e un’Asl délabré, tra una palazzina del boom e un comando dei carabinieri, senza essere accecati dal riflesso di una sfera o di un obelisco di Arnaldo Pomodoro. Pomodoro, vera superstar delle rotonde, simbolo della provinciale monumentalità senza volto della nostra epoca, in cui i nomi si portano dietro i problemi della storia, e quindi al riparo dalle vernici anti-montanelliane. Pomodoro va bene per tutti, non celebra una parte o un’altra, non può essere politicizzato. A differenza di un cavaliere con l’elmo o di un poeta declamante, sfere e dischi sono scomodissimi per i piccioni, che preferiscono scaricarsi appunto sui marmi, dove non scivolano e dove non si bruciano le zampette. Il bronzo è “il più nobile”. Così i Pomodoro restano sempre intonsi. Tutto all’aria aperta, perché, come diceva lui, “l’arte deve uscire dai musei”. La sua è soprattutto sulle strade. Passe-partout per riempire uno slargo o una plaza.


Pomodoro è morto ieri all’età di 99 anni, subito riconosciuto dal clickbaiting dei quotidiani online come “il più grande scultore vivente”. Padre che “conduceva la vita dei vitelloni felliniani” e si giocava tutto ai cavalli, e così il giovane Arnaldo necessità di un lavoro vero, noioso, come geometra al Genio civile nell’adolescenza marchigiana, sognando l’accademia d’arte. Anche suo fratello, Giò, diventerà artista. La mitica giudice e regina della società civile Livia è invece cugina. Poi gita a Milano nel ’53 e incontro con Picasso quando porta il suo “Guernica” a Palazzo Reale (quello dove ora fanno le mostre D&G). Periodo americano, a Berkeley con Strawinsky, poi studio sul Naviglio Grande, a due passi dalla darsena, in un cortile di una casa di ringhiera, tra movida e cannolerie siciliane. E nel frattempo produzione costante per riempire cortili e piazze e roundabout, con una predilezione da parte dei palazzi del potere: sede Unesco di Parigi, Palazzo di Vetro dell’Onu, il Vaticano, e Farnesina di Roma (l’immagine che vediamo al Tg quando si parla del ministero degli affari esteri). Ma anche il palazzo della gioventù a Mosca – regalo del governo ai sovietici, un discone d’oro – e pure dentro la reggia dello Scià a Teheran.


Perfette le dimensioni pomodoriane per i grandi spazi della città novecentesca. “Lei fa proprio parte della vita di tutti”, gli dice Fabio Fazio quando lo invita per il suo novantesimo a “Che tempo che fa”, aggiungendo che la morte nera di “Star Wars” è “ovviamente ispirata alla sue forme”. Nessuno che si chieda però il significato di questi grossi pezzi di bronzo, che sembrano l’idea del passato sul futuro, forse celebrazione della tecnologia o forse critica, si slabbrano o si divaricano o si squarciano le superfici ed escono fuori i chip, gli ingranaggi. I nomi delle opere sono quelli da romanzo sci-fi di Urania: Lancia di luce, Ingresso nel labirinto, Rotativa di Babilonia, Porte della luna e del sole, Luogo di mezzanotte, Nutrimento solare. Lui ha sempre detto delle opere: “Sono sogni”, aggiungendo “a volte io stesso non so cosa faccio”. Argan diceva: “La collocazione giusta per le sue opere sarebbe il cielo”. Ma ci si accontenta delle rotonde.

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