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Terrazzo

Bentornata Velasca, il grattacielo più amato dal cinema italiano

Michele Masneri

Riapre la Torre disegnata a Milano nel '59 dallo studio BBPR e set del "Vedovo" e non solo 

“Carissimo Lambertoni! Cosa fal a Milan con stu cald?”. In questi giorni siamo tutti Lambertoni, il creditore che insegue Alberto Sordi/Alberto Nardi alias “Cretinetti” nel più famoso film ambientato in un grattacielo della storia d’Italia. Il film è ovviamente “Il Vedovo”, del 1959, il primo che vede in azione il trio delle meraviglie Dino Risi-Alberto Sordi e Rodolfo Sonego come supremo sceneggiatore. Il grattacielo è ovviamente la Torre Velasca, che, conclusa a tempo record l'anno prima, oggi viene dopo meticolosi restauri riaperta al pubblico. Nella Milano bollente oggi come allora, ci siamo noi che per fortuna o purtroppo non abbiamo una moglie ricca e puntigliosa come la indimenticabile Elvira (Franca Valeri), che poi si rivelerà strozzina, né dunque progettiamo di farla fuori tramite boicottaggio d’ascensore (il film è anche una grande metafora dell’ascensore sociale bloccato nell’Italia d’allora e pure d’oggi. Del resto il plot della commedia all’italiana molto spesso si avvita  proprio attorno alle peripezie di un povero cristo che cerca di migliorare la propria condizione; “Una vita difficile”, “Il Sorpasso”, ma anche “Fantozzi”). 


Oggi ascensori nuovi di zecca nel palazzo disegnato dal fatidico e araldico studio BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers) dove un tempo c’era il Bottonuto, il quartiere più popolare e malfamato di Milano;  quartiere di case di ringhiera, di vicoli, di postriboli. Il  nome Velasca  che oggi è anche un brand di abbigliamento - siam pur sempre a Milano - deriva da Juan Fernandez de Velasco, governatore spagnolo di Milano tra il XVI e il XVII secolo. La torre doveva essere in acciaio, ma data l’arretratezza dell’industria siderurgica italiana d’epoca, sarebbe costata troppo. Dopo due anni di lavoro e di calcoli realizzati dall’ingegner Arturo Danusso di Torino, lo stesso che curò i calcoli del Pirellone, nel 1955 lo studio BBPR termina il progetto della Torre Velasca: una torre alta 106 metri, che al termine del cantiere è il secondo grattacielo più alto di Milano, dietro la Torre Breda (116 metri), in Piazza della Repubblica; il Pirellone non l’avevano ancora finito. Oggi la Velasca, proprietà degli americani di Hines, occupa il tredicesimo posto in classifica (al primo c’è la Torre Unicredit di Cesar Pelli al Centro Direzionale, 231.5 metri). 


E’ il Burj Khalifa di Milano e forse tornerà ad essere il grattacielo delle grandi borghesie dopo il crollo della dinastia Ferragnez, emiri di CityLife. Il restauro  è stato curato dall’architetto Paolo Asti, con una novità, una nuova piazza pedonale pubblica,  e anche giardinetto di ulivi. Ci sono i segni del nostro tempo, ecco il ristorante fusion giappo-brasilian-peruviano  Sushisamba (dove Albertone avrebbe portato l’amante), la palestra e la spa nel seminterrato anzi basement, e usi misti residenziali-commerciali:  dei ventisei piani fuori terra, la torre è sempre stata divisa in due: restando sulla metafora del fungo, oggi come allora nel gambo stanno gli uffici e nel cappello, dal 19° piano in su,  gli appartamenti (che hanno bisogno di più spazio) come quelli di Sordi e della sua Elvira. Però oggi non si possono comprare ma solo affittare. 


Oggi, col restauro  si è fatta pure una bella beauty routine alla pelle della Velasca, che torna al suo stato originale: le strutture erano intatte ma l’aria non proprio salubre di Milano in 70 anni aveva profondamente deteriorato le superfici esterne dell’edificio, che ora è di nuovo color “grigio-rosa Velasca”, così prontamente ribrandizzato (siam pur sempre a Milano). Ma all’inizio l’accoglienza fu gelida (come in tutti i grandi amori). La torre non piacque a nessuno, considerata retriva, reazionaria: Bruno Zevi la detestava, la critica straniera più rigorosa,  specie quella anglosassone, la definì “l’emblema della ritirata italiana dall’architettura moderna”. I milanesi le diedero soprannomi ridicoli, la chiamavano “grattacielo delle giarrettiere”, “oppure grattacielo con le bretelle”; ma Rogers la spiegava   con “l’esigenza di riassumere culturalmente, e senza ricalcare il linguaggio di nessuno dei suoi edifici, l’atmosfera della città di Milano”.  E materiali e colori della Torre erano  citazioni di altri segni della città; i costoloni che percorrono le facciate per trasformarsi in contrafforti aerei per esempio evocano la Torre del Filarete del Castello Sforzesco. 

 

Ma in definitiva fu proprio il cinema a rendere la Velasca  “igoniga” e sexy: come raccontano Piero Maranghi e Leonardo Piccinini nel loro “Almanacco di Bellezza-Speciale Torre Velasca” in onda su Sky Classica (canale 124) giovedì 19 giugno alle  22, non c’è solo il Cretinetti: nella Velasca aveva l’ufficio anche l’Amerikano, il boss mafioso interpretato da Lionel Stander, che nel poliziottesco “Milano Calibro 9”   cerca di recuperare il bottino nascosto da Ugo (Gastone Moschin). È una scena che scompare dalla memoria, annichilita da quella successiva, celeberrima: Barbara Bouchet che, inquadrata di sghimbescio, balla su un cubo in un night. Ma ci abitava anche Marvin Hagler, the Marvelous, più volte campione del mondo dei pesi medi, mito della boxe del New Jersey che nella  Velasca si stabilì dopo aver appeso i guantoni al chiodo. Gino Bramieri abitava pure lui lì, al 21° piano. Della Velasca diceva: “L'è brutta? Va ben, ma l'è nostra”.  La sera del 4 settembre 1978 l’appartamento di Bramieri venne distrutto da un incendio, divampato in salotto pare a causa dello scoppio del televisore. Cinque anni prima, la notte dell’11 settembre 1973, un altro incendio aveva devastato, al pianoterra della Velasca, gli uffici della  Pan Am: ai tempi, la concomitanza con il golpe di Santiago del Cile e una rivendicazione da parte di una sedicente SIM, Solidarietà Internazionale Militante (sigla mai sentita, prima dell’avvento dei cellulari) fecero pensare a un attentato. 


Che cinema!  Ecco, visitando oggi gli attici, con la vista incredibile su tutta Milano dalle terrazze rivestite di piastrelle blu e con le  balaustre d’epoca, ripiombiamo anche noi in piena commedia all’italiana: ma quanto vengono mai questi straordinari duplex panoramici, con soppalco, chiediamo. Qualcuno sussurra una cifra in migliaia di euro. Manco tanto, dico io, pensando al mese. Invece è al giorno! Insomma, si torna giù, Fantozzi o Cretinetti per sempre, per fortuna almeno senza cadere nella tromba dell’ascensore.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).