(foto EPA)

Terrazzo

I talenti di Mr. Pinault

Michele Masneri

Per 7 miliardi di dollari si è comprato Caa, la più grande agenzia di Hollywood, che rappresenta da Hanks a Spielberg (e la moglie)

Mentre noi si torna impoveriti dalle ferie coi toast tagliati in due col sovrapprezzo, per i magnati globali è tempo di grandi spese. Specialmente nella moda, i due soliti francesi rivali Arnault e Pinault mettono a segno i soliti colossali acquisti. Se Bernard Arnault (patron di Lvmh, che ha accumulato marchi siderali come Dior, Fendi e Loro Piana, e talvolta si trova a essere l’uomo più ricco del mondo secondo le fluttuanti classifiche del settore) ha finalizzato l’acquisto della casa degli Atellani a Milano, con vigna leonardesca e strascico di polemiche, il meno abbiente ma non proletario François-Henri Pinault si è comprato il 30 per cento del marchio di moda Valentino e pure, misteriosamente, il 49 per cento del gioielliere italico Vhernier noto per le parure sfoggiate da Lilli Gruber. Ma soprattutto Pinault, che con la sua Kering controlla tra gli altri Gucci e Bottega Veneta, si è preso la quota di maggioranza di Caa, Creative Artists Agency, la più grande agenzia di artisti – anzi talent, come si dice oggi – del mondo. 

E qui già fa strano perché comprarsi un marchio ha senso, ma comprarsi un’agenzia, insomma degli attori, uno dice, ma che c’entra? E’ difficile pure da visualizzare. Magari uno pensa che siccome la moglie, Salma Hayek, fa l’attrice (ed è una cliente dell’agenzia) sia una roba di famiglia, come si comprerebbe il ristorante alla moglie cuoca. No, e non dobbiamo immaginarci nemmeno le agenzie romane degli attori al piano terra col linoleum e le poltrone imitazione Artemide nel quartiere Prati, e nemmeno quelle immaginarie a Piazza del Popolo come si son viste in “Call my agent Italia”, e neanche quelle pur lussuose parigine dell’originale “Dix pour cent” con gli agenti che vanno in giro in scooter a gestire la Bellucci nelle crisi isteriche. No, qui si tratta di un’azienda che fattura ed è rilevante in America oggi come la Fiat lo era nell’Italia degli anni Ottanta. Fondata nel 1975, raccoglie la più grande rappresentanza di artisti non solo nel cinema e nello spettacolo ma anche nello sport (si va dalla A degli Ac/Dc alla Z di Zendaya, e rappresenta tra gli altri Tom Hanks, Steven Spielberg, Ava DuVernay, Ryan Murphy e Reese Witherspoon, oltre appunto a Salma Hayek). Caa oltretutto nel 2021 ha acquisito la rivale Icm, altro storico marchio losangelino che rappresenta tra gli altri Shonda Rhimes, Ellen DeGeneres, Samuel L. Jackson. Insomma adesso è un Bilderberg di facce, un gotha di creativi, un coacervo di talenti bestiali. Per gestirli ha 3600 dipendenti, fa 1,7 miliardi di dollari di fatturato, ed è stata valutata 7 miliardi da Artemis, il family office cioè la struttura che gestisce gli investimenti privati della famiglia Pinault, che già possiede trofei bestiali come i vigneti di Château Latour e la casa d’aste Christie’s, e ora rileva il 53 per cento di Caa in mano al fondo di private equity Tpg.

 

A comandare sull’agenzia non sarà un finanziere senza scrupoli che non capisce nulla del mestiere come appunto avviene in “Dix pour cent” bensì Bryan Lourd, già direttore generale e vicepresidente della Caa. Già fidanzato di Carrie Fisher, poi gay, è l’eminenza grigia di Hollywood, quello che tratta non partecipazioni a una fiction voluta da Fratelli d’Italia col finanziamento Mibact e la film commission di Frascati, bensì contratti colossali come il passaggio di Ryan Murphy da Disney a Netflix, roba da 300 milioni di dollari (calcolate voi il dieci per cento).  

Per qualcuno è strano il tempismo dell’operazione, proprio nel momento in cui il sistema hollywoodiano attraversa una delle più grandi crisi del secolo (cioè da quando è nato, nel 1923). Ma forse aumentare di taglia porterà l’agenzia a essere più rilevante proprio nella lotta che si sta svolgendo tra “talent” e grandi piattaforme di streaming, che sono ormai “il” nemico, accusate di voler puntare sulle intelligenze artificiali e di rosicchiare sempre più i compensi degli umani. Per esempio Scarlett Johansson, rappresentata dalla Creative Artists, ha fatto recentemente causa alla Disney accusandola di erodere i suoi compensi spingendo l’uscita del film “Black Widow” contemporaneamentenei cinema e in tv, per lanciare la sua piattaforma Disney Plus, in questo danneggiandola. La Caa e Lourd sono corsi in suo soccorso e la causa è arrivata a un patteggiamento.  

Dall’altra parte i legami tra moda e intrattenimento son sempre più incestuosi. Certo, da sempre ci sono connessioni, Tom Ford che da stilista diventa regista, e Miuccia Prada che al centro della sua Fondazione mette un cinema, ma oggi si è fatto un passo avanti. Yves Saint Laurent per esempio ha messo su una sua casa di produzione, la Saint Laurent Production, grazie al suo direttore creativo Anthony Vaccarello che è un cinefilo accanito, e a Cannes ha portato “Strange Way of Life” di Pedro Almodóvar, con Ethan Hawke e Pedro Pascal, e un omaggio a Godard. 

Però ci si chiede soprattutto, per la fusione tra Kering e Caa, se ci saranno le famose sinergie. Cioè, tutte le star della Caa dovranno vestire Gucci, diventandone poi testimonial in automatico? E se un marchio rivale offrirà di più, le povere celebrity o come si dice ora i talent, temeranno rappresaglie se rifiuteranno di incollarsi la borsetta del loro agente-stilista? E ancora, Kering sponsorizzerà solo i film con i talent Caa? Ci vorrà un “Call my agent” versione Codacons, un tar del Lazio a Hollywood per questa guerra delle borsette. 

In realtà pare che per gli attori questa fusione sia una manna dal cielo, perché, costretti a non lavorare, per aderire al micidiale sciopero che va avanti da mesi, gli è concesso invece prender parte a pubblicità in lungo e in largo, non essendo considerati crumiri se prestano il loro volto a questa o quello spot o inserzione. Dunque, giù campagne pubblicitarie come se non vi fosse un domani. Anche perché i marchi di moda come si sa sono i più altospendenti di tutti. Per Pinault, rileva il sito Puck, si tratta invece di un colossale biglietto da visita per entrare ulteriormente nella stanza dei bottoni d’America, e in generale nello spettacolo che pare piacergli molto. Bisognerà aspettare ora la contromossa di Arnault, che invece è più riservato, non va alle feste, sta sempre a casa, e forse è per questo che è molto più ricco, vabbè.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).