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Terrazzo

Più architetti meno star

Manuel Orazi

La 18esima Mostra internazionale di architettura allarga il pubblico al continente africano e a cento studenti provenienti da tutto il mondo. Manca come di conseuto l'architettura costruita e il ministro Sangiuliano loda il padiglione italiano prodotto dal ministero dei Beni culturali e curato dai Fosbury

Tra i vari aspetti positivi nella 18esima Mostra internazionale di architettura diretta da Lesley Lokko, il primo è aver allargato il pubblico: mai si erano visti così tanti architetti o curiosi di origine africana durante la vernice della Biennale, anche se quasi tutti europei o americani (ma si è allargata proprio anche la Biennale: impossibile visitarla in due giorni, ne servirebbero almeno quattro se aggiungiamo Certosa e Giudecca a meno di non avere una barca a disposizione). Positiva anche la possibilità per circa un centinaio di studenti provenienti da tutto il mondo di fare workshop a Venezia durante la sua lunga apertura – chiude il 26 novembre, ben sei mesi – ed è un altro allargamento. Infine, aver posto l’Africa al centro dell’esposizione ha rovesciato la Biennale: i soliti noti sono stati costretti a non venire (per farsi notare di più) o a inventarsi eventi collaterali (vengo e me ne sto in disparte). Viceversa chi per anni era ospite solo in padiglioni esterni, è entrato di diritto, su tutti Daar (Sandi Hilal e Alessandro Petti) la coppia italo-palestinese che ha ricevuto il Leone d’oro così come quello alla carriera andato al nigeriano Demas Nwoko. Stavolta gli Alvaro Siza, i Norman Foster, i Kengo Kuma erano sparsi in remoti campielli, isole o stanze di palazzi lontani dai Giardini e dall’Arsenale.

Non è affatto inedita la tanto deprecata mancanza dell’architettura costruita: l’edizione del 2011 si intitolava “Architecture Beyond Building” e in fondo le esposizioni sono più strumenti di comunicazione che di selezione, vista l’atavica difficoltà di rappresentare l’architettura. Il problema è che in troppi non ci hanno provato nemmeno, mostrando cioè installazioni pseudoartistiche ineffabili cioè mute, al massimo ieratiche, perlopiù inservibili. Ciò che manca poi in una macchina espositiva sempre più poderosa come questa, sono semmai i padiglioni dei paesi africani così come quei non molti architetti europei attivi da sempre nel più grande dei continenti come Tam associati o Arcò, per citare solo due italiani, che hanno cercato di tradurre per tempo anche da noi temi e problemi ormai globali. Il padiglione italiano curato dai Fosbury, essendo prodotto dal ministero dei Beni culturali è piaciuto assai al ministro Sangiuliano – chi si loda s’imbroda. E’ un bene aver concesso un’occasione a dei giovani, la prima sala introduttiva è bella perché vuota, la selezione di nove casi studio è oculata e la scelta di voler intervenire a distanza in contesti periferici problematici è temeraria. E’ un male invece la levigata ineffabilità di cui sopra che rischia di sfociare nel velleitarismo e dunque nell’irrilevanza. In generale, se tutto è architettura, allora niente lo è e il risultato è una latente criminalizzazione di una professione antica che corrisponde a un istinto: come il castoro o l’ape, l’uomo è infatti costruttore. Il moralismo che aleggia, visti i tempi di guerra e inondazioni, per fortuna non ferma l’illogica allegria gaberiana di tantissimi visitatori divertiti e divertenti che hanno affollato l’inaugurazione, come il triestino Giovanni Damiani: “Che poi anche si dica leone e non leonessa d’oro mi pare una profonda ingiustizia e una forma di colonialismo culturale anche patriarcale”.

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