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Terrazzo

La famosa invasione degli architetti in Sicilia

Jacopo Costanzo

La regione più grande d’Italia è stata attraversata da un team di giovani studiosi, nell'ambito dell' "After Festival diffuso di architettura", con l’intento di investigare e mappare il patrimonio ingegneristico e architettonico dell’ultimo secolo. Un contromovimento meditativo 

La micidiale proliferazione dei festival (anche) di architettura in Italia fa sì che il più tangibile tra i movimenti contemporanei in architettura sia ormai l’architainment. Persino gli addetti ai lavori faticano a stargli dietro e però “After Festival diffuso di architettura in Sicilia” appena concluso è stato un po’ diverso. A esperienza terminata (almeno in parte, considerata la fase di divulgazione internazionale, prevista dal programma della manifestazione in autunno) si può evidenziare un insolito tentativo di alterare la consueta accezione carnevalesca tipica dei festival, in favore di un contromovimento meditativo quasi politico: volgere lo sguardo al passato prima di tuffarsi nel futuro.

Così la regione più grande d’Italia, bagnata da tre mari e sovrastata da una montagna di oltre tremila metri d’altezza, è stata attraversata da un team di giovani architetti, artisti, curatori, scrittori, ricercatori e videomaker, con l’intento di investigare e mappare il suo patrimonio ingegneristico e architettonico dell’ultimo secolo (1922-2022). Una liturgia quotidiana itinerante, con perlustrazioni dalle prime ore del mattino fino a sera, per poi passare il testimone ad alcuni dei protagonisti dei progetti più o meno noti, in grado di disvelare aspetti critici di una storia certamente complessa e plurale.

 

Si fa fatica ad accettare e comprendere la mancanza di antologie aggiornate e pubblicazioni all’altezza su progettisti di cruciale importanza per l’architettura italiana come Giuseppe Samonà (leggendario rettore dell’Iuav veneziano), il catanese Giacomo Leone amico di Bruno Zevi, i gregottiani Pasquale Culotta e Bibi Leone, ma anche Pirrone, Carpinteri o ancora sulla sterminata produzione di Franco Minissi, maestro della museografia archeologica. Le opere di tutti questi architetti erano presenti nel densissimo programma del festival articolato come un’indagine sulle tracce di vicende contraddittorie come l’Ente di colonizzazione del latifondo siciliano (Borgo Rizza), le imprese economico-urbanistiche di Eni ed Enel (Gela, Augusta), la ricostruzione del Belice (Gibellina, Salemi), più in generale le politiche dell’abitare che da Palermo a Catania, dallo Zen a San Berillo, costituiscono la spina dorsale di una storia ancora tutta da raccontare.

 

In un paese come il nostro, dove un gigantesco numero di architetti, organi corporativi e relativi istituti di formazione non riesce a coordinarsi efficacemente con un’approssimativa agenda infrastrutturale (stadi, ponti, studentati e termovalorizzatori come eterne chimere), gli happening e i talk diventano più concreti dei concorsi di progettazione. Tutto rema a favore dei festival: costi, tempi, modalità, oltre a un invidiabile esercito di addetti ai lavori. Non sarà mica un caso che Nanni Moretti abbia affidato a Renzo Piano, maestro indiscusso della comunicazione architettonica, il cameo più pop del suo ultimo film.

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