Gian Mattia D'Alberto / LaPresse

Terrazzo

Enzo Mari è un meme

Giulio Silvano

A un anno dalla scomparsa, cosa rimane del grande designer milanese, tra l’autoprogettazione, la fama, e la ruvidezza  

Ho scoperto della morte di Enzo Mari tramite un meme. Scrollando su Instagram ho visto la faccia del designer photoshoppata sullo schermo di un computer, sotto, alla scrivania, una ragazza con la testa piegata, devastata dal dolore. È tratto da un anime giapponese degli anni 90 Goldenboy. Vivo in un mondo in cui i lutti dei Vip li scopro dai meme. Chissà cosa direbbe Enzo Mari di questo meccanismo a cui noi millennial siamo ormai assuefatti.

 

È passato esattamente un anno, e, secondo il grande designer, ne mancano ancora trentanove prima che qualcuno possa davvero capire il suo lavoro. “Sigillate il mio archivio per quarant’anni”, pare abbia detto. C’è qualcosa di messianico nell’avere la certezza del non essere compresi in vita.

Qui vediamo la prima esistenziale contraddizione mariana (nel senso di Mari): incompreso ma di grandissimo successo. I suoi oggetti, dal calendario perpetuo Timor alle stampe di mele e pere e pantere, sono in ogni casa borghese gauche-design che si rispetti. Mostre, opere esposte al Moma, Compassi (cinque!) e Ambrogini d’Oro, collaborazioni con il best of dei marchi made in Italy per liste nozze: Cassina, Alessi, Artemide, etc etc. Acclamatissimo non solo come ideatore-creatore di oggetti, ma come guida, guru, maître à penser del costruire a casa propria, per sfuggire alla dittatura del commercio da show-room. Il suo Autoprogettazione?, edito da Corraini, stampato per la prima volta nel ’74 dalla galleria Duchamp, è una soluzione anticipatoria all’Ikeaizzazione degli appartamenti. Una guida pratica per costruirti da solo letto, tavoli, sedie, tutto il necessario per abitare usando assi di legno e chiodi, “una tecnica elementare perché ognuno possa porsi di fronte alla produzione attuale con capacità critica”. Ho un amico autoprogettazione-dipendente che non riesce a smettere, ogni volta che si va da lui in campagna compare un nuovo pezzo. C’è qualcosa di empowering nel costruirsi i mobili da soli, di macho si sarebbe detto qualche anno fa. Nel suo appartamento milanese Mari si era costruito il camino insieme al muratore, “per me è stato un gioco, un passatempo, la realizzazione di un sogno dopo aver spiato le case dei contadini. Sarebbe bello potersi occupare solo di mantenere vivo il fuoco”.

La presa di posizione politica dell’autoprogettazione è chiara; scrive nell’introduzione del manuale: chiunque può utilizzare i disegni per costruire da sé “ad esclusione di industrie e commercianti”. Qui la seconda contraddizione, “mercenario” dei brand eppure dispensatore di un vangelo per l’autarchia d’arredamento, capitalismo e anti-mercificazione, una vita a pensare con raffinato impegno politico per orientare l’artista e l’uomo nella società, per un’educazione del proletariato “ancora condizionato dai miti della cultura aristocratica”. Esempio dichiarato di questo percorso tra ricerca estetica, studi sulle forme e rivoluzione è la sua mostra del ’73 alla galleria Milano, “Falce e Martello: tre modi con cui un artista può contribuire alla lotta di classe” (di recente è stato ristampato il catalogo da Humboldt books con dei saggi critici). Collezionare e studiare le immagini di un simbolo, onnipresente negli anni della lotta, per capire se il valore formale incide o meno sul significato veicolato. Negli anni della disillusione di massa vediamo nella sua scultura Allegoria della morte – forse la più fotografata alla mostra dell’anno scorso in Triennale curata da Obrist – tre lapidi su cui ci sono appunto falce e martello, svastica e croce cristiana. Da vero marxista Mari vedeva ogni religione come scelta politica. Disse in un’intervista: “Sono ateo e credo in Dio”. Altra apparente contraddizione. L’ennesima. Criticissimo poi, negli ultimi tempi, verso il design contemporaneo, che diventa “orpello alla moda”, troppo caro perché possa avere un impatto, e del tanto amato concetto post-sessantottino di creatività. “Non esiste oggi parola più oscena e più malsana della parola creatività. Si produce il nulla, la merda con la parola creatività”.

Brusco aforista, quindi – “L’arte è disperazione totale” –  dipinto come un Savonarola del design, come un orco burbero col suo mezzo Garibaldi accesso in bocca, con gli sbuffi di fumo che si mescolano alla barba bianca, Mangiafoco del Salone del Mobile. Uomo per cui “ogni morbidezza, ogni intenerimento” equivaleva a “indecorosa svenevolezza”, scrive il figlio Michele, Stevenson gaddiano, in Leggenda privata (uno dei libri più belli e onesti degli ultimi vent’anni). Date le eventuali iperboli freudiane e romanzesche, il ritratto fatto dalla prole è comunque feroce: “Mai visto piangere mio padre, io, che dico piangere? mai l’occhio velato di commozione, il che non vuol dire (voglio sperare) che non si sia mai commosso” ma sotto così tanti strati di corazza “da non essersene accorto nemmeno lui”. Il suo stemma araldico? “Il rinoceronte, il porcospino… meglio il triceratopo”. Ma tutta questa ruvidezza, “sguardo Jack Palance – Charles Bronson” (sempre il figlio) – che va di pari passo con questa sua ammirata purezza – viene a volte sgretolata nei momenti del viaggio che Mari, già anziano, fece in America con Giovanna Silva e Gianluigi Ricuperati, raccontati in Desertions. Ci sono tenerissime fotografie di Silva dove il designer, con cappello bianco in testa, mangia un cono gelato americanissimo e sorride nel deserto del Nevada. Rabbia contro l’imperialismo a stelle e strisce, ammirazione verso il formato delle banconote, “un chiaro esempio di coerenza formale”.

Quindi: uomo pratico (in un video su YouTube insegna a piantare un chiodo), ruvido, fisico, risolutivo, versione scavata lumbard del nonno di Heidi, esempio di fattività – le mani callose che stringono senza tentennare gli strumenti, che toccano la materia – e allo stesso tempo teorico, socratico, autore alto, pensatore attivo, innamorato, sciamano del design precapitalista, santone della no-bullshit, del poche balle. Contraddizioni di cui forse lui era una sintesi, o un tentativo di trovare una quadra. Oppure, come diceva Walt Whitman, (o forse Carmelo Bene?), “sono vasto, contengo moltitudini”.
 

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