Terrazzo

Anomalo veneziano

Michele Masneri

Il grande successo della Biennale di Architettura, tra addetti ai lavori, curiosi, e la voglia di uscire di casa (e da Instagram)

Tutti vogliono esserci: c’è tutta Milano, c’è tutta Roma, c'è tutto l'Instagram. Anche chi non si sospettava minimamente interessato ai fasti architettonici: a questa Biennale 2021 che è appunto  d'Architettura, dunque generalmente la sorella di nicchia rispetto alla più celebre Arte o alla glamorosa-smandrappata Cinema. Ma il tempismo è tutto e lei è la prima, e dunque è questi chiaramente il "Ballo in bianco e nero" del Covid, l’evento che chiude un’epoca e forse ne apre un’altra, quella degli eventoni, i saloni, le prime, le anteprime, quei posti dove bisognava assolutamente esserci, quando si usciva.

 

E forse a colmare queste colossali aspettative di tutti, lo show è enorme, smisurato. Tutto all’insegna del gigantismo. Enormi i padiglioni complessissimi, enorme il catalogo, enormi anche gli eventi coevi e collaterali, come la mostra alla fondazione Prada sulla "fine della pittura", di Peter Fischli, enorme la mostra di Bruce Nauman da Pinault. Tutto grande, misterioso, o forse è solo un’impressione, dopo due anni chiusi in casa.

 

E forse anche per quello in tanti - è una novità di quest'edizione - utilizzano plastici e planimetrie per farci capire dove siamo (e per evitare le brochure, contagiose). Da Prada al piano terra plastico "d'autore". Anche al padiglione argentino all’Arsenale, tutto un gioco minimalista sulla casa tipica argentina con l’andatura delle stanze che è anche quella degli stand e del segno grafico. Le planimetrie ricorrono  anche nelle migliaia di Airbnb abbandonati ora in vendita a Venezia, con quelle piante di ingresso, sei camere e sei bagni, senza salotto. “Come vivremo insieme”, il titolo di questa Biennale della speranza. Profetico anche se scelto prima dei guai, nella città eponima della Peste.

 

Dunque è una Biennale generalista, per non architetti, per esserci e basta. Per farsi vedere, per acchiappare. Da sempre è anche la Biennale dei vestiti meglio, non strani come l'Arte, non sciamannati come le maestranze del Cinema. Ma questa volta, non più solo pallidi progettisti tendenza nordico-boreale, ma proprio "aho, ma che ce fai qua".  E’ un successo clamoroso; migliaia di biglietti staccati, folle che accorrono ai Giardini e all’Arsenale. Ognuno se la gode come vuole. Potrebbe essere il Salone o Fuorisalone del Mobile, passando dai padiglioni distaccati e diffusi; ma Venezia è stata più coraggiosa di Milano, qui si è riaperto già (e chissà che, prima del Ponte sullo Stretto, si riuscirà un giorno anche a rendere Venezia raggiungibile proprio da Milano, visto che il treno tra queste città non marginali probabilmente ci impiega lo stesso tempo che ci metteva la contessa Serpieri in carrozza).

 

Intanto, al padiglione canadese, tutto ricoperto di teli verdi,  l’improvvido cronista si è seduto per scrivere queste note, tutti si fermano; scusi, sa come si entra? Non si entra, è padiglione virtuale, bisogna scaricare un codice QR e si vedrà sul telefono un trionfo immaginario di città (Si chiama “Impostor cities”,  per ribellarsi al fatto che le città canadesi son quasi sempre utilizzate come controfigura al cinema per rappresentare New York o le città americane).

 

Anche al padiglione tedesco accanto, tristissimo come di consueto, è tutto virtuale, con effetti però efficaci: “non si può entrare, perché completo”, dicono, anche se vuoto. Ci son dentro i nostri avatar, e si riflette, dopo due anni chiusi in casa in compagnia di social e riunioni su Zoom.  A proposito: che fatica, la mondanità, l’esserci, il parlare. Si perde la concentrazione dopo pochi minuti, non si è più abituati a  così tanti stimoli visivi che non provengano da un aggeggio ma nella realtà, violentissima. Nel contempo espletando riti sociali, come salutare, mentire, alludere, sorridere con gli occhi, dare gomitini a chi pretende gomitino, il tutto camminando più chilometri in un giorno di quelli fatti in due anni.

 

E dov’è il tasto “cancella” o “mute” per certi discorsi che non si vogliono sentire o facce che non si vogliono vedere? La mascherina invece forse resterà nelle nostre abitudini: in fondo non facciamo che ripetere che per la prima volta non si son prese influenze, va bene anche per lo smog, ma  aiuta molto anche “socially” (hai visto quello, non voglio vedere quella, tra rivali, cordate, lobby, caste, in fondo siamo nella città delle “siore maschere”, e tirarsela giù un attimo è un gesto prezioso, d’antica cavalleria, ci si sente subito in "Senso").

 

La memoria di ciò che è stato si vede dagli hotel sbarrati (uno su due non riaprirà), e dai gabbiani famelici e sempre più aggressivi dopo due anni di dieta, che oggi piombano incattiviti su aperitivi e finger food (particolarmente sconsigliato il giardino del Bauer, dove planano in continuità tipo Mig bielorussi. Ma divorano anche famelici residui davanti alla ferrovia, tra i primi atterriti turisti). C’è una specie di gioia isterica nell’aria, gabbiani e umani, tutti con l’impressione che sia “la prima volta” e insieme “l’ultima volta”; prima della rinascita, ultima con Venezia vuota. Non è né l’una né l’altra cosa. Che altro resterà? I prodi vaporettisti che non dicono più il nome delle fermate? E i bottiglioni di disinfettante a bordo? Nel weekend dell'anteprima, mancano i bivacchi per sbafatori; quello Rolex all'Arsenale, e quello a Cà Giustinan, dove ci si rifocillava con grissini arrotolati di prosciutto nel tramonto fatale coi piedi gonfi.

 

Mezza piena e mezza vuota, vaccinata a metà, l'umanità a Venezia. Non deserta come l'estate scorsa. Non gremita come sempre. Gli Airbnb costano ancora poco, i ristoranti scaldano i motori, i prezzi sono chiaramente gonfiati - il costo medio, 50 euro, è diventato 70, ma in fondo è una piccola patrimoniale che si versa volentieri per “save Venice”. Ci sono polemiche, che è sempre un buon segno. Il sindaco Brugnaro oltre a fondare un suo partito è, dicono, arrabbiato per non essere stato invitato in certi fondamentali party anni fa, dunque rigoroso sulla sicurezza e le normative dei numerosi eventi collaterali ospitati nei palazzi. I nobili sono stravolti; lotta di classe. Giberto Arrivabene-Valenti-Gonzaga e altre decine di cognomi ha fatto quello che tutti sognano: lui e la moglie, infanta d’Italia Bianca di Savoia-Aosta, si son ritagliati una mansarda del palazzo avito, e il sotto è diventato il nuovo fondamentale Aman hotel. Loro sì che han risolto il problema del come vivere insieme. Ma noi, senza palazzi, come vivremo? 

 

"Comunità resilienti", il padiglione italiano, registra le migliori istanze della contemporaneità impegnata e però le vuole infilare proprio tutte in uno spazio oscuro che pare  la cameretta di uno studente molto turbato e opinionated dopo due anni di Dad e di esposizione ai social: ci sono delle scarpe da ginnastica in mezzo a un mucchio di sabbia a ricordare l’emigrazione italiana in America. Poi, su cartelloni,  migliaia di parole in neolingua burocratico-ecologista, tradotte in inglese da chi non ha ancora fatto l'Erasmus. Ad altezza viso, all'ingresso, la parola intelligienza con la I, senza nessuno che la corregga. E cartelloni, proclami, tazebao. Piccolo vivaio che vorrebbe fare “Countryside” ma fa Brico. Denuncia di problemi pressanti, affannosi, confusi: l’Africa, il genoma, la ridefinizione del ruolo dell'architetto e la riqualificazione del trampolino di Cortina d’Ampezzo. E "spatiology e urbanology”; “visione etica ed estetica della architettura”, "post-sisma e alternative femministe". Tutto scritto, niente disegnato, in questo spazio assembleare dove l'impegno prevale decisamente sul progetto (ce ne sono, anche validi, ma impallati da "fiumi di parole").  Nella cameretta poi manca il poster di Bob Marley, ma in compenso c'è un video con Beppe Grillo da Favara, all’ingresso. 

 

 

Piace, però: pure ai più chic e adulti che lodano padiglioni più minimalisti come quello uzbeco, con tubi innocenti gialli. Oppure quello cileno con ex voto, o l’argentino in rosa. Ai Giardini, altro segno di normalità: c’è il consueto yacht del sibarita di turno. Questa volta si chiama “Plan B”. Il padiglione Israele è uno dei più cruenti e centrati, con l'opera “Land, Milk, Honey”, altro che latte e miele: animali impagliati entrano ed escono elettricamente da carrelli come di un’enorme cucina inox da Masterchef, e sarebbe la storia di come è cambiata l'agricoltura e l'allevamento in quelle lande, ma non si può non pensare alle carneficine in atto tra Tel Aviv e Gaza.

 

I giapponesi, pure, sempre impeccabilmente sofferenti, imbandiscono una drammatica casa di legno smontata e demolita a simboleggiare il calo demografico. La Francia ormai in Biennale porta ogni volta dei villeggianti; l’altranno era una specie di "Piscine", con sdraio, qui invece delle tavolate che fanno grigliate (forse è un messaggio: forse i francesi interpretano la Biennale come un pranzo al sacco, non certo di gala).

 

Il Belgio è più elegante; se nel ’18, ultima edizione, era vuoto con inni al blu-Unione Europea, questa volta propone modelloni di palazzi molto instagrammabili; la Spagna celebra l'incertezza e il casino come l'altra volta, ma con foglietti appesi. Gli Stati Uniti (foto sopra) forse per autodenunciare un loro nuovo isolazionismo ecologista - c'è sempre questo fuori sync tra la progettazione della Mostra e i governi in carica -  fanno un’enorme superfetazione in legno, dove si sale fino a  una poltroncina, e da lì puoi guardare chi c’è sotto (ogni anno qualcuno si cimenta col padiglione terrazzato,  e va sempre bene, tre anni fa erano stati gli inglesi con lo scicchissimo studio Caruso St. John, e offrivano addirittura té).

 

Ma quest'anno si beve spritz: sotto, al Padiglione Venezia, le eleganti “Earth Stations” e i disegni di Michele De Lucchi, che inaugura con allineamento veneziano stellare: sindaco Brugnaro, ministro Brunetta, presidente della Biennale e uomo del momento, Roberto Cicutto. E l'ombra del romano-palladiano Draghi sullo sfondo.

 

Ai giardini tanta gioventù  scalza sdraiata come in un happening, al sole: voglia di esserci, sguardi, eccitazioni. Ci vediamo dopo.  Ma dove? Ufficialmente non ci sono party, e però raccontano  di dj set  che vanno avanti tutta la notte, ed è anche più eccitante. Il coprifuoco? Basta infilarsi in una calle, la polizia passa in barca e mica ti insegue. Certo, ogni tanto sfila ancora qualche barca-ambulanza, con le sirene, a ricordare la Peste, ma questa volta la musica è più forte.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).