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Lina Bo Bardi torna a Roma

Michele Masneri

Al Maxxi le video installazioni di Isaac Julien dedicate all'architetta italo-brasiliana, ma soprattutto romana. Da domani

Apre domani al Maxxi “Lina Bo Bardi – A Marvellous Entanglement”, dedicata alla architetta più ganza che l’Italia abbia mai avuto. E’ un po’ un ritorno a casa, non solo perché la Bo Bardi (1914-1992) era romana, del quartiere Prati, ma anche perché al Maxxi si era già tenuta la mostra del centenario nel 2014 e il museo ha uno degli archivi più ricchi sull’architetta. Adesso questa mostra dell’artista e videomaker creolo-londinese Isaac Julien, che rende omaggio all’universo creativo dell’architetta italo-brasiliana con video installazioni varie e un film d’arte con le attrici brasiliane Fernanda Montenegro e Fernanda Torres, madre e figlia nella vita, che nel film diventano l’architetta in versione anziana e giovane. Dialogo con vere parole bardiane e film girati nei luoghi sacri dell’architetta, lo strabiliante museo d’arte di San Paolo, la casa di vetro che si progetta per sé, e il Sesc Pompeia. “Sono sfuggita dalle rovine dell’antichità recuperate dai fascisti”, scriveva la BB. Lei da Roma, quartiere Prati, partì in cerca della contemporaneità, e dunque prima per Milano: “Per fare pratica”, da Gio Ponti. “Mi disse subito: io non ti pagherò, sei tu che dovresti pagare me”, scrive nel suo “curriculum letterario” che accompagna l’unico suo scritto, una monografia a introduzione del suo corso di architettura all’Università di San Salvador de Bahia. “So scrivere bene, certo che so scrivere bene. I miei maestri sono Stendhal e Majakovskij. Il primo mi ha insegnato la concisione, il secondo il ritmo e la fantasia del reale”. E’ una storia che meriterebbe almeno una fiction Rai o un film Mibact, quella poliedrica di Lina BB. Partita da Prati e da un papà monarchico-anarchico, e da quella città e da quegli studi che privilegiavano il passato (dirà: lì il museo viene spesso confuso col mausoleo, e si studiano solo i monumenti antichi). Fa una tesi di laurea femminista intitolata “Maternità per madri nubili” che piace pochissimo a Marcello Piacentini, architetto principe del Duce, e presidente di commissione. A Milano, rimane sotto le bombe per difendere lo studio d’architetta. Si rifugia a Bergamo, dove viene trasferita a gestire il governo in esilio della rivista Domus, che a soli 25 anni è chiamata a dirigere.

 

Nel 1945 sposa a Roma Pietro Maria Bardi, per lei “il maggior giornalista italiano”, difensore del modernismo, amico di Mussolini e poi nemico. Lui progetta con Nervi un pezzo di Eur, fonda la rivista Quadrante, organo dei razionalisti, che ospita Le Corbusier, Gropius, Breuer, Léger. Nel ’46 i due partono per il Brasile. Non torneranno mai più. Al marito viene proposto di dirigere il museo d’arte di San Paolo. Si imbarcano dunque sul piroscafo “Almirante Jaceguay” e arrivano a Rio de Janeiro (c’è una foto d’epoca, lui con le valigie, una grande e una piccola, lei con un abitino). Il Brasile è una folgorazione, anzi un “deslumbramento”, un “abbagliamento”, per “la semplicità intelligente, un paese immaginifico, che non ha una classe media ma solo due grandi aristocrazie, quella della terra e quella del popolo”. In mezzo alle due aristocrazie Lina BB scopre un territorio misterioso e immenso dove si può perfino costruire, senza contemplare un passato grandioso (che non c’è). Un’architettura “che non ha diecimila anni ma dieci, dove costruire è necessario, e l’architetto brasiliano è un ragazzo chiamato alle armi all’improvviso”. “Le città brasiliane rivelano un’umanità che vuole sistemarsi rapidamente, guadagnare tempo: un’umanità che lavora”. E ancora: “Quello che ho fatto in Brasile non lo avrei potuto costruire in Europa. Per questo sono brasiliana”, dice la Bardi deslumbrada. Lei vorrebbe stare a Rio ma “a San Paolo ci sono i soldi”. A San Paolo, capitale finanziaria australe, una New York con le palme, fa di tutto. Disegna e fonda giornali, “A” con Bruno Zevi, “Habitat” col marito, e dissemina il Brasile di case ma soprattutto edifici pubblici, e proprio agli edifici pubblici la mostra di Julien è dedicata. Al MASP – Museu de Arte de São Paulo, il rosso museo che non voleva grandioso ma “dotato di dignità civica”, le attrici vengono riprese mentre passeggiano fra i supporti in vetro e cemento all’interno dell’allestimento progettato da Lina BB coi quadri sospesi nel nulla (qui lei si inventerà anche una sfilata di moda – primo caso di sfilata in un museo, cosa che ancor oggi scandalizza assai, ma era il 1951, Dior per l’esattezza).

   

Le scene iniziali della videoinstallazione sono ambientate invece nell’incredibile SESC Pompeia, nuova sede del Serviço Social do Comércio, frutto della riconversione negli anni ’70 di una vecchia industria in centro culturale e sportivo, che comprende piscine, palestre, ristoranti: una ex fabbrica di bidoni ristrutturata con uso aereo del cemento armato insieme ai dettagli che ci fanno amare la Lina (l’uso romantico dei sassi, le caditoie come piccole piscine). Un teatro, con seggioline programmatiche-punitive; e i due corpaccioni di cemento armato, quello della piscina e quello della palestra, entrambi necessari per una società che tiene tantissimo al fitness. Un cubone con tanti “occhi” asimmetrici che garantiscono ventilazione (Bo Bardi odiava l’aria condizionata, e si capisce anche nella pur bellissima biblioteca dove si crepa di caldo); e tanti ponti sospesi (e una torre-ciminiera per il riscaldamento). Tutto modernissimo e arci-contemporaneo. E oggi diventato un grande classico. Del resto il tempo, scriveva Lina BB, “non è lineare, è un meraviglioso groviglio, a marvellous entanglement”, appunto, “in cui, in ogni momento, si possono scegliere punti e inventare soluzioni, senza inizio né fine”.

 

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