Ansa

la tv generalista

La sovraesposizione del dolore in tv forse ha un limite

Serena Magro

Il racconto popolare sui delitti trova sempre nuove strade: le ultime uscite di Vittorio Sgarbi testimoniano l'evidente stato di debolezza che sta vivendo e forse la vecchia tele potrebbe lasciare in pace un suo grande personaggio

Non che manchino i delitti, ma c’è che ora a raccontarli sono in tanti e forse in troppi. Chi lavora in televisione deve vedersela con quelli che prima storcevano il naso contro la tv del dolore. I podcast più chic e le serie più curate e più dibattute, pur attingendo alla tendenza sospirosa del cinema italiano (quella speciale dizione in cui tutte le parole cominciano e finiscono con inutili emissioni di aria aggiuntiva), prendono le mosse proprio dai nostri delittacci e non se ne fanno mancare niente, dalla crudeltà dei fatti testimoniati alla ricostruzione meticolosa dei profili psicologici. La tv generalista, che certo non molla sui delitti e continua a presidiarne il grande racconto popolare, è capace anche di percorrere altre strade, attingendo al proprio enorme repertorio. E cosa c’è di più televisivo, strettamente televisivo, di Vittorio Sgarbi. Nessuna serialità potrà mai sostituirsi al dolore realmente interpretato da una persona conosciuta televisivamente per decenni, cui non ci si è proprio affezionati (non sembra il tipo) ma di cui si sa molto, proprio per la sua capacità di rivelarsi secondo un canone originale rispetto agli altri personaggi dell’offerta mediatica. Il critico di tv moralista e un po’ ingenuo vorrebbe subito scattare all’attacco contro l’uso televisivo di questa fase malinconica della vita di Sgarbi e contro la contrapposizione pubblica esibita tra lui e la figlia (la terza), dotata di un’aria poco empatica e abituata a presentarsi negli studi televisivi o nelle interviste per la carta stampata con un lessico legale tendente al medico-legale e con sospette mire ereditarie.

 

Il critico di tv che ne ha viste abbastanza propende invece almeno per la sospensione del giudizio. E' indiscutibile che non è bello mostrare Sgarbi in evidente stato di debolezza e privato dalla apparente depressione del suo principale strumento di scena e cioè della carica polemica e della totale mancanza di inibizioni nella contestazione di chi detesta. Ma si percepisce nell’azione degli autori televisivi e dei conduttori alle prese con la materia sgarbiana una specie di riserva mentale legata proprio alle abitudini del personaggio, e questo un po’ rovina tutto il lugubre gioco. E’ la cautela dovuta di fronte a una persona che sta sempre ambiguamente sul confine tra uno che intende caratterizzarsi come un devoto della storia dell’arte, divulgatore e anche aperto polemista politico e uno che ti sta prendendo per il culo. Anche le interviste del dolore sgarbiano sono segnate da questo dilemma e, ascoltandole, si percepisce sia la volontà di ingaggiare quel terribile dilemma sia la paura di un colpo di reni dell’intervistato per saltare al collo dell’intervistatore. Si sente, in un caso, una voce fuori campo che (con ogni evidenza) replica domande fatte davvero in presenza (ma con prudenza) e seguono le risposte di Sgarbi. La voce, probabilmente replicata in studio, è asettica, con un tono da anamnesi, una cosa poco gentile travestita da rispetto. Sgarbi spiega il suo ultimo libro, parla in modo abbastanza sganciato dalle domande (ma quando ha risposto davvero a domande?). Bruno Vespa fa una cosa simile in studio e in presenza, correndo sulla storia personale del momento. Forse, e senza sconfinare nell’ingenuità del critico moralista, Sgarbi, con queste uscite e mostrando questa fase di difficoltà, ha già restituito alla tv abbastanza rispetto a ciò che ne ha ricevuto. E la vecchia (e saggia) tv generalista potrebbe decidere, con un improbabile disarmo reciproco, di lasciare un po’ in pace un suo grande personaggio e il suo asse ereditario.

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