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Addoloriamoci tutti nella vertiginosa matrioska della sofferenza
La tv del dolore è stata un grande prequel di questa Instagram society depressa e ha insegnato a un’intera generazione che il dolore è un “contenuto”, che la fragilità è un capitale sociale, Dalla tv ai social, persino sui libri, viviamo ormai in una grigia cultura della sofferenza, del lamento, del pianto
Domenica scorsa, quando ho visto Vittorio Sgarbi da Mara Venier ho provato quello che probabilmente hanno provato tutti: pietà, imbarazzo, fastidio. Non perché fosse in tv (era già stato da Vespa) ma per un’intervista che non andava oltre i convenevoli fatta a un uomo con lo sguardo fisso, catatonico, avvinghiato al libro che doveva promuovere come un salvagente che lo tiene a galla. Mara Venier e Tommaso Cerno andavano avanti come se niente fosse, mentre Sgarbi neanche alzava gli occhi per godersi l’applauso del pubblico. Farfugliava parole che sembravano costargli uno sforzo immane, come chi deve sollevare pesi per i quali non si è allenato. Un martirio televisivo insostenibile. Un ingiusto supplizio. E anche – somma perfidia televisiva – l’uccisione simbolica dello Sgarbi che fu: quello che in tv spadroneggiava superbo, ribaltava la puntata, mandava tutti affanculo tra urla, spintoni, lampi di genio puro. Sadica vendetta e rivincita di quella televisione che gli diede la popolarità trasformandolo nel principe degli “irregolari”, “geniaccio”, esteta, sommo provocatore. Poco dopo, nello stesso pomeriggio, ecco su Canale 5 l’intervista a Evelina Sgarbi. Il padre su Rai 1, la figlia a “Verissimo”. Lui che dice “poteva venire a trovarmi, i treni c’erano”, lei che risponde “è completamente plagiato, non è più lui”. Così, alle quattro del pomeriggio, guardavo Silvia Toffanin e la figlia di Sgarbi che guardavano insieme sul led psichedelico di “Verissimo” Vittorio Sgarbi ospite qualche giorno prima da Bruno Vespa che avevo appena vista da Mara Venier.
Lo so, vi gira la testa, e l’effetto era proprio quello: una vertiginosa matrioska del dolore. Un gioco di rifrazioni e riflessi dove il soggetto originario scompare per fare posto alla sua immagine, al suo simulacro, al suo share. I due programmi rivali della domenica si contendevano gli ascolti azzannando lo stesso dramma familiare — la depressione di un uomo di settantatré anni, la richiesta di un amministratore di sostegno da parte della figlia, l’accusa reciproca di tradimento, manipolazione, eccetera — poi lo smontavano, lo ricomponevano: un pezzo a te, uno a me, come un Frankenstein televisivo. Cucivano insieme le parti di una famiglia disfunzionale per darla in pasto al pubblico insonnolito della domenica pomeriggio in preda ai postumi delle lasagne, nonni che russano sul divano, bambini che giocano col telefono, mentre la tv va avanti da sola e si potrebbe anche morire in diretta, non è detto che da casa se ne accorgano.
Forse – mi dico – questa però è la reazione di chi, come me, è cresciuto nel vecchio mondo, quello prima di Internet. Perché in quello nuovo, andare in tv col volto emaciato, lo sguardo assente, tra i postumi di una pesante depressione, significa “svelare la propria fragilità più vera”. Quella di Sgarbi in tv, leggo in una rivista glamour, è “un’immagine ricca di tenerezza e di dolore”. Qui forse c’è la differenza tra la vecchia tv del dolore e la nuova, che infatti nessuno ormai chiama più così, anche perché nel frattempo il mondo è cambiato. Nell’epoca in cui uno sguardo di troppo, una lezione su Shakespeare o battute tipo “guidi bene per essere una donna” sono diventate “microagressioni” da denunciare, stigmatizzare, punire, qualsiasi cosa può essere dolorificata. “Tv del dolore” è infatti un’etichetta vintage, come “cyberspazio” o “multimediale”. Rievoca vecchie icone del pianto anni Novanta: le lacrimazioni della Carrà, certi scorticamenti pomeridiani della D’Eusanio, risalendo su, fino alla tragica diretta di Alfredino – prequel di tutta la tv del dolore del secolo scorso, che a detta di molti nasceva proprio lì. Da quel pozzo di Vermicino emerse infatti una creatura televisiva che avrebbe colonizzato i palinsesti per i successivi quarant’anni. La tv del dolore si saldava alla cronaca nera – oggi “crime” – diventando genere a sé, con le sue regole, i suoi riti, i suoi personaggi fissi, le villette, i plastici. Ogni estate un delitto irrisolto, una provvista per il lungo inverno televisivo. Anche con dilatazioni impensabili: il Garlasco Show, per esempio, che rivive una nuova età dell’oro, una seconda o terza stagione che sembra girata da David Lynch ubriaco.
Ultima sacerdotessa del dolore fu comunque Barbara D’Urso: in onda sette giorni su sette, di mattina, di sera, sempre. Un impero costruito sulle lacrime, gli shock, gli sbudellamenti familiari, figli illegittimi, testamenti. Tv del dolore classica e morbosa: sfere tossiche, vip in disgrazia, tormenti amorosi anche per uno spettro inventato dalla tv, come l’indimenticabile Mark Caltagirone. Le ultime volte che si evocò con disprezzo la “tv del dolore” fu proprio per lei. Ma la vecchia tv del groppo in gola aveva una cosa: aveva bisogno di un fatto di cronaca nera, di un delitto, di un mistero da risolvere. C’era pur sempre la maschera del giornalismo investigativo. “Stiamo facendo informazione”, era il mantra che ripetevano inviati e conduttori che si affastellavano su cadaveri e freak d’occasione. C’era un giallo da risolvere, un colpevole da cercare, una verità da scoprire. Per quanto cinico e morboso, il format manteneva una struttura narrativa riconoscibile: inizio, sviluppo, conclusione. Sgarbi a “Domenica In” è invece dolore puro: senza filtri, senza alibi, solo quel libro che stringeva tra le mani. E’ la depressione di un uomo, il conflitto familiare tra padre e figlia, la fragilità psichica accomodata in poltrona. Nessun giallo da risolvere, nessun colpevole da cercare. Solo la sofferenza, servita calda, dopo il caffè.
Ed è esattamente qui che la tv del dolore si salda con la Instagram society. Perché se ci pensate cosa fanno ogni giorno milioni di persone sui social se non esibire il proprio dolore, le proprie fragilità, i propri strazi? Il mio feed di Instagram, un tempo vetrina di gente in vacanza tutto l’anno sbracata alle Maldive o in qualche trendy-bar di Dubai, è ormai pieno di post sulla depressione, sull’ansia, sul trauma, sui disturbi alimentari, sulle relazioni tossiche. La tv del dolore è stata un grande prequel di questa Instagram society depressa e ha insegnato a un’intera generazione che il dolore è un “contenuto”, che la fragilità è un capitale sociale, che l’esposizione è l’unica forma sincera e autentica di elaborazione del lutto. Se non lo posti non è successo, se non lo condividi non esiste: tutto questo vale anche per l’intimità, il trauma, la malattia, monete sonanti da spendere sul mercato dell’attenzione.
La differenza è che prima serviva la televisione, servivano i programmi, le conduttrici, il dramma parentale trascinato in studio. Ora basta uno smartphone. La tv del dolore era ancora, malgrado tutto, uno spettacolo: c’era chi piangeva e c’era chi guardava. C’era una distinzione netta tra chi produceva l’emozione e chi la consumava. Volendo farsi prendere un po’ la mano si era ancora sulla lunghissima scia dei Balzac, Sue, Dumas padre o Raffaello Matarazzo: grandi fabbricanti di lacrime, chirurghi dell’emozione a puntate, i primi a capire che il pubblico pagante voleva piangere, e voleva piangere regolarmente, e voleva piangere per personaggi con cui potesse identificarsi – non più eroi tragici ma borghesi sfortunati, orfanelle perseguitate, operai, diseredati, oppressi, figli di nessuno. La critica aristocratica accusava il feuilleton di essere volgare, sentimentale, manipolatorio – esattamente le stesse accuse che avremmo mosso poi alla tv del dolore, la stessa mescolanza di ragione e snobismo. Ma i social hanno abolito questa distinzione. Su TikTok, Instagram, YouTube, il dolore è diventato partecipativo. Un fiume in piena. Un oceano di lacrime e abusi e pressioni insostenibili che sta ridefinendo le nostre relazioni. E in questo oceano si sono sviluppate forme di vita nuove, adattamenti evolutivi. C’è il reaction video, per esempio: qualcuno piange raccontando il suo trauma, e qualcun altro si riprende mentre guarda il primo che piange, e piange a sua volta, e questo secondo video ottiene più visualizzazioni del primo perché offre allo spettatore una doppia catarsi, il dolore originale più il dolore riflesso. E’ una mise en abyme del pianto, una struttura a scatole cinesi che potrebbe continuare all’infinito – qualcuno che reagisce alla reazione che reagisce al dolore originale – e che in effetti a volte continua, in thread sempre più lunghi e sempre più incomprensibili a chi non conosce il contesto.
E c’è il commento, quella forma letteraria minima che i social hanno elevato a Grande Romanzo della nostra epoca: sotto ogni video di dolore, migliaia di commenti che dicono “mi hai fatto piangere”, “sei fortissima”, “mando un abbraccio virtuale” (e come lo vuoi mandare... per posta?) Questa proliferazione del dolore non ha prodotto più empatia. Casomai una strana assuefazione. Susan Sontag lo diceva a proposito della fotografia di guerra: la ripetizione dell’orrore ci rincoglionisce, non sensibilizza, anestetizza. Lo stesso vale per il dolore televisivo e ancora più per quello digitale. La vecchia tv del dolore emigra nei podcast, altro grande carrozzone dolorifico. Ci sono le “storie di dolore pelvico” di Giorgia Soleri, vulvodinia, endometriosi, adenomiosi e altre patologie che hanno un “impatto sulla sessualità penetrativa”: una sofferenza “confidential” raccontata di puntata in puntata, perché “ci siamo stancate di essere considerate invisibili”. Se la tv del dolore aveva l’obbligo dell’informazione, i podcaster devono sensibilizzare, portare allo scoperto, condividere le loro malattie per il bene di tutti. Ci sono valanghe di podcast sulla malattia mentale o il canale YouTube “Caffè & Psichiatria”, roba che avrebbe messo in imbarazzo anche Franco Basaglia. E naturalmente podcast su pazienti oncologici, lutti infiniti, disgrazie, famiglie tossiche, disfunzionali, insomma materiali per sei stagioni di “Al posto tuo”, vecchio talk di Alda D’Eusanio che ricorda solo chi è sopra i quaranta. Non a caso, i generi di successo dei podcast sono il crime e il racconto intimista di abusi e malattie: purissima tv del dolore.
L’esaltazione della fragilità, il culto della vulnerabilità, il dolorismo come posa e come brand hanno contagiato tutto. Da anni Mariarosa Mancuso aggiorna su questo giornale il variopinto catalogo di dolenze dello Strega. Il trauma è un genere letterario con le sue convenzioni, i suoi tic, i suoi premi. Il TSO è il nuovo viaggio in India. Il ricovero in psichiatria ha sostituito l’anno sabbatico a Berlino. La confessione pubblica è un dovere morale, la fragilità una prova di autenticità: se non hai sofferto abbastanza, che cosa vuoi raccontare? Paolo Cognetti ha ragione quando dice che le malattie mentali non devono essere una vergogna. Ma tra non vergognarsi e andare in scena c’è ancora o dovrebbe esserci una qualche differenza. Il problema non è certo parlare di depressione, ansia, traumi. Ma ora c’è un format da rispettare, delle convenzioni, una giuria. La fragilità ha il suo dress code. Anche qui il meccanismo è lo stesso della tv del dolore: l’intimità trasformata in spettacolo, la ferita esibita come credenziale letteraria. Però vuoi mettere, mica siamo in tv, siamo scrittori.
Negli anni Novanta, David Foster Wallace scrisse un saggio dal titolo magnificamente snob, “E Unibus Pluram”. Sosteneva che la tv americana aveva fagocitato tutte le armi della letteratura postmoderna – l’ironia, il cinismo, la parodia – e le aveva trasformate in intrattenimento. Gli scrittori che provavano a usare l’ironia come strumento critico arrivavano sempre secondi: la tv li aveva battuti sul tempo. Erano prigionieri di un linguaggio che non era più il loro. I nostri scrittori sembrano avere un problema diverso. Non sembrano aver ereditato il sarcasmo di Letterman e dei late-night americani ma lo scorticamento pomeridiano, la lacrima in primo piano, il dolorismo continuo. Non sono figli dell’ironia televisiva, sono figli della D’Eusanio. Soffrono, scrivono della sofferenza, poi soffrono di aver scritto della sofferenza, in un loop che i premi letterari accreditano con puntuale entusiasmo. E’ una linea retta che va dalla tv generalista ai podcast, dal salotto di “Porta a Porta” al feed di Instagram, dal dolore come spettacolo al dolore come identità e poi su fino al Premio Strega. La vecchia tv del dolore non la guardiamo più. Non perché sia finita, ma perché la facciamo ogni giorno, coi nostri post intimisti, gli screenshot delle radiografie, delle analisi del sangue, i referti medici condivisi come trofei, le crisi d’ansia raccontate in tempo reale, i lutti elaborati con un lungo post su Substack. Siamo i conduttori e gli ospiti di noi stessi, in un programma che non finisce mai e che soprattutto nessuno ci ha chiesto di fare. Sgarbi, almeno, aveva un libro da promuovere. Un pretesto. Un alibi. Qualcosa da stringere tra le mani mentre affondava in pubblico.