Prodotta da Fremantle Italia, la serie è sviluppata e scritta da Alessandro Garramone con Davide Bandiera e Annalisa Reggi. Regia di Nicola Prosatore. Foto Ansa 

Il Foglio Weekend

Una terrazza da paura

Michele Masneri e Andrea Minuz

Soldi, violenze, musica  e tanta cocaina. Arriva la docuserie Netflix su Alberto Genovese e le sue feste  nel palazzo degli orrori. Dalla startup alla mostrificazione, da Napoli alla Milano da bere (e da pippare)

Siamo qui sul Frecciarossa Roma-Milano (con partenza da Napoli) a finire di vederci questo “Terrazza sentimento” su Netflix: docuserie sulle imprese di Alberto Genovese, anzi Alberto Maria Genovese: ex startupparo di successo, creatore di “Facile.it”, re delle feste milanesi, poi in carcere per scontare otto anni e quattro mesi (vari reati, tra cui violenza sessuale). Storia che forse ricorderete – all’epoca alimentò fiumi di talk-show, scoop di Giletti, analisi e diagnosi sulla nostra società malata eccetera – ma a rivederla ora nel formato “docuserie” fa ancora più impressione.

Michele Masneri: Io per esempio ho il terrore adesso che tutti i managerini che vanno “su” e si incontrano qui sempre sul Freccia e fanno le call ad alta voce, nel contenitore di polistirolo bianco per le mozzarelle di bufala che tengono sulla cappelliera, ci tengano invece la ketamina, o gli inquietanti laccetti di plastica per legare i polsi che si intravedono nella serie, e di cui l’appartamento di Alberto Maria era pieno.  

Andrea Minuz: La casa. Parte tutto da lì. Anche il titolo della serie, che è in effetti bellissimo. E poi l’idea di chiamare quella roba cafona in Duomo “Terrazza Sentimento” aveva qualcosa di geniale: come se la continua astrazione manageriale, quel lessico da powerpoint aziendale anche quando c’è di mezzo la droga o il sesso, avesse bisogno di ristabilire un qualche contatto, almeno linguistico, con qualcosa di vagamente umano. In a sentimental mood.

MM: Quando c’è sentimento, non c’è mai pentimento, cantavano i Neri per caso. C’entra anche molto la mania milanese di brandizzare tutto: appena una pizzeria o cantante o portinaio ha successo parte immediatamente il logo e il “merch”, con le magliette, le borsine di tela e le tazze. Anche in collaborazione, panettoni in collaborazione con marchi della moda, trattorie in collaborazione con panettoni…  E questa terrazza pur essendo privata e gratuita aveva un suo account Facebook, e un “tag” Instagram…

AM: Il brand “Sentimento” poteva andare benissimo: bottiglia di profumo immortalata tra i Faraglioni, ristorante italiano a Madison Avenue, pregiati maglioni di cachemire. Tutto. Resta invece una specie di casa degli orrori anche molto cafona (solo a Milano si va in estasi per un posto del genere). 

MM: Anche “il sentiment” si diceva molto, fino a poco tempo fa, in Borsa e non solo, per dire l’umore… Comunque: attico e superattico di 300 mq con “piscina a sfioro” e “vista mozzafiato sul Duomo” e il solito arredamento “da calciatore” in quella perenne City Life che è l’estetica dei nuovi ricchi del nuovo secolo, con superfici bianche, mobili da bar, grandi piante in vasi di plastica bianca come a Dubai o Miami o al Twiga. E’ una Milano anche molto balneare (del resto il Twiga ha appena aperto in città, unico caso di beach club senza beach). Che Milano stia prendendo un po’ il posto di Roma (città appunto balneare, come diceva il nostro amato Flaiano)?  

AM: “Sembrava come il Grande Gatsby”, racconta invece una ragazza intervistata nella serie. “Lui organizzava la festa e si godeva lo spettacolo ma poi non c’era mai, si vedeva poco”. E te credo: si vedeva poco perché passava molto tempo al piano di sotto, nel suo bunker-camera-da-letto con qualche ragazza e molta coca, nell’intimità difesa da una porta blindata, come in un caveau svizzero, sorvegliato da un buttafuori gigantesco. Entravi ma non potevi mica uscire. Una trappola per ragazzine. Un “Bates Motel” piazzato in piazza Duomo.

MM: Lì sono rimasto colpito dalla citazione, devo ammettere. Fitzgeraldiani a Terrazza Sentimento. 

AM: Ma no! Intendeva il film: ormai Gatsby esiste solo nella pellicola di Baz Luhrmann, Fitzgerald è scomparso da mo.

MM: Baz Luhrmann ma con la calda luce del Vomero. 

AM: Peraltro, più che Fitzgerald Genovese è un personaggio à la Bret Easton Ellis. Biografia da manuale del capitalismo digitale all’italiana: napoletano, Vomero, buona famiglia, poi Milano, Bocconi, poi Harvard, poi Londra, divisione Equities di Goldman Sachs. Nel 2008 fonda Facile.it. L’azienda vola: oltre mille dipendenti, valutazione sopra il miliardo. Poi vende tutto e incassa. Poi fonda un’altra azienda  e incassa ancora. Avanti così, come una macchina da guerra. Sedici ore di lavoro al giorno. Finché all’improvviso la macchina si inceppa. Forse non ne può più. Forse si è stufato. “Forse aver venduto gli ha tolto l’adrenalina che lo mandava avanti”, dice un vecchio amico intervistato nella serie (qui anche molti flashback enigmatici à la Lynch: Genovese bambino nerd nella Napoli anni Ottanta che sembra uscito da “Stranger Things”, bullizzato, non invitato alle feste – campo in cui si sarebbe preso una bella rivincita). Spento come imprenditore, Genovese trova un sostituto della vecchia adrenalina finanziaria nei grandi e intramontabili “classici”: coca, sesso, festoni, champagne, Ibiza, Formentera. Ci si mette con lo stesso piglio del manager di successo. Ma con tanta droga e tanta cattiveria evidentemente a lungo repressa. E fa quasi tenerezza il mostro Genovese quando dice “prima delle orge con persone che conoscevo da venti minuti pensavo che il sesso fosse quella cosa che arrivava dopo un pranzo, poi un aperitivo, poi una cena, poi messaggi al telefono, poi un altro pranzo, poi un’altra cena e magari si finiva a letto insieme ma non è detto che”. Ecco, qui non vorrei farla troppo facilepuntoit: ma questa storia è anche un po’ il dramma di quelli che scoprono la fica a quarant’anni. I più pericolosi di tutti.

MM: E’ anche una storia molto italiana, direbbe Stanis La Rochelle! Il successo che porta alla tragedia. Mai fondare startup. Mai andare in America. Non poteva rimanere a Napoli e magari prendere il reddito di cittadinanza? No! Apre la startup, fa i soldi, e si sa facendo i soldi come si va a finire. Del resto, la versione in inglese della serie si intitola “Start up, fall down”, che potrebbe essere anche il titolo di un convegno di Confindustria Giovani (a Capri). Chissà se la vedranno i “tech bro” della Silicon Valley, che anche loro stanno diventando sempre più bestiali. Loro hanno i bunker contro le catastrofi nucleari, Genovese aveva quello per il sesso violento. Ma  in “Mountainhead” Jesse Armstrong, il creatore di “Succession”, racconta  il weekend con delitto di un gruppo di ricchissimi siliconvallici ormai mostrizzati dai troppi soldi. 

AM: Qui però la montagna è “o Vesuvio”. 

MM: La startup alla genovese, appunto. Impossibile da digerire. E nella sua tragicità e nel suo orrore, certo è anche una storia che  racconta un’altra Napoli che non sia il munaciello, Maradona, il babà, il rione Sanità, i carceri minorili sulle isole che il mondo ci invidia. Lo startupparo napoletano-americano che arriva a Milano e che però all’apice del successo, quando fa la sua “exit”, non si gode i soldi ma invece diventa un mostro. Siamo sempre al “Vedovo”, insomma. Ma con la ketamina. Tra Bret Easton Ellis e Alberto Sordi con Terrazza Sentimento al posto della Torre Velasca. Anche lì c’erano due “Alberto”. Uno prima dell’incidente della moglie ricca, Franca Valeri, che sopravvive, e uno dopo, che decide di ucciderla e perde ogni freno inibitore. 

AM: Come in questa storia: nel 2016 nasce un nuovo Genovese: erotomane, psicopatico, violento, torturatore, paranoico. Col cervello inzuppato di coca che inizia a sentire le voci. Letteralmente ovunque: anche i piedi gli parlavano.

MM: Vedi! Di nuovo, come nel Vedovo! Non dimentichiamoci che Dino Risi nasce psichiatra, e il film si apre con Sordi che confessa di essere appena uscito da una clinica per la “salute mentale”, come direbbero oggi. 

AM: Questa scissione – Genovese startupparo indefesso, Genovese stupratore sotto coca – è ovviamente il perno della strategia difensiva dei suoi avvocati (anche qui Genovese può permettersi il meglio, ovvio), con l’idea che sia stata solo colpa della coca, che la droga l’ha trasformato in un altro. Ma la docuserie a me pare impietosa nello smontaggio della tesi: non sono due persone diverse. La Milano che ha reso possibile il primo Genovese à la Gordon Gekko è la stessa Milano che ha lanciato e celebrato anche il secondo à la “American Psycho”.

MM: Aridatece i vecchi Yuppies. E poi non dimentichiamo il simmetrico della Terrazza Sentimento, cioè il piano terra “pentimento” (o sciabolamento), quello dove un altro protagonista della Milano marciona di questi anni, Davide Lacerenza, ha scontato i domiciliari. Nasi comunicanti: lui niente violenze, ma i traffici della sua Gintoneria, il locale dove “sciabolava” le bottiglie con le carte di credito. Al piano terra, dove stava affacciato in finestra come in un basso napoletano, passavano i fan a salutarlo, e passava Corona, il monaciello del gossip milanese. E’ anche l’unico caso in cui come risarcimento il tribunale di Milano ha accettato le bottiglie di champagne che Lacerenza teneva in cantina. Se non è Milano da bere questa. 

AM: Qui invece da pippare. Tanta coca. Più che in “Scarface”. Come dice Filippo Facci nella serie – inquadrato seduto non si sa bene perché in un corridoio: “L’assoluta protagonista di questa storia è la cocaina”. La cocaina e Milano, “città esclusiva che ti vende l’illusione di essere esclusivo”, spiega una delle ragazze intervistate…

MM: Ma anche i video sono esclusivi. Perché alla fine Genovese rimane incastrato soprattutto dalle riprese che lui stesso – forse con un lapsus, per essere finalmente arrestato e curato? – produce a iosa con le telecamere sparse ovunque in casa.  Quando arriva la polizia, fa cancellare tutto a uno dei suoi bravi manzoniani, parola in codice “piallare”, “piallami quei video”, ordina, ma la polizia milanese riesce a trovare lo stesso i filmati, grazie a una “polvere digitale”, che non è la bamba ma i resti che rimangono nella memoria elettronica dei dispositivi. La serie è così anche un grande spottone alle forze dell’ordine milanesi. Scopriamo che c’è anche un nucleo di balde poliziotte anti violenza sempre all’erta. Che sia una sofisticata operazione di pr, per tranquillizzare la popolazione, visto che Milano ormai è percepita come Caracas per l’annosa questione della sicurezza? Come in California quando, per rassicurare l’opinione pubblica  terrorizzata dal serial killer Zodiac, inventarono “Sulle strade di San Francisco”, con Michael Douglas.

AM: Qui potrebbero fare: “Sulle ciclabili di Milano”. Già, perché c’è stato anche l’accoltellatore pazzo, quello che l’altro giorno in pieno centro ha quasi ammazzato una poveretta a caso.

MM: “L’ho fatto contro il potere”, ha detto lo svalvolato bergamasco assaltando una signora che lavorava alla finanziaria della Regione Lombardia. Il Mangione di Bergamo Bassa ha agito “in” Gae Aulenti, e chissà la povera Gaetana detta Gae, già accostata col suo nome a quel micidiale piazzalone tondo tra i grattacieli, ora pure al delitto dell’anticapitalista suonato. Milano dopo Sala sarà pronta per il suo Zohran Mamdani? In questo caso, un sindaco pugliese. 

AM: Le centinaia di ore di video ripresi dalle telecamere a circuito chiuso di Terrazza Sentimento sono un po’ la valigetta di “Pulp Fiction” di questa docuserie. Ma anche la parte più repellente della faccenda. Come ogni buon psicopatico, Genovese filmava tutto. Un sistema di videosorveglianza pazzesco. Gli invitati consegnavano il telefonino all’ingresso – niente foto, niente testimoni – ma erano sempre ripresi dalle videocamere di Genovese. La serie ricostruisce alcune scene con l’AI – cioè le prove schiaccianti della sua violenza. Ma lascia solo intendere. Possiamo solo immaginare. I produttori hanno surfato sopra onde di avvocati che hanno bloccato tutto. Però basta vedere le facce degli addetti di polizia che provano a raccontare ciò che hanno visto passando al setaccio i video. Fa già paura così.

MM: Io poi confesso che l’ho vista coi sottotitoli la serie, perché spesso non capivo quello che dicevano. So che le testimonianze sono state riprodotte con l’AI per motivi legali, però queste signorine non sembrano o forse non sono madrelingua, specialmente una tale Carmen… forse hanno disimparato le preposizioni semplici e articolate, forse è colpa  della ketamina… E poi ho scoperto anche un sacco di parole nuove. Stanno tutti in fissa per esempio con la “k-hole”, uno stato di indolenzimento prodotto sempre dalla ketamina che non si capisce se è interessante o tremendo. Mi sento molto Natalia Aspesi, confesso, con questi nuovi fenomeni! Non li conosco! Non li capisco!

AM: Ma è la lingua della Milano Sushi&Cocaina! Il “k-hole” (o “la”? Boh) e “dashboard”, “keta”, “burn rate”, “traction” e “io e la Carmen siamo in connessione”. Una lingua che pesca da un italiano che stenta, un inglese mai imparato davvero, modellata sulle emoticon.

MM: E poi nel mio essere Natalia Aspesi penso sempre a quelli che stavano sotto a Genovese, pensa il bordello! Già faccio fatica a dormire, coi tappi, ci sarà pure il rumore del tram. 

AM: Quello è un altro romanzo! Che uno startupparo cocainomane avesse come vicino di casa il pacato Roberto Bolle che di notte non riusciva a prendere sonno e giustamente si lamentava del casino a “Terrazza Sentimento”, anche chiamando la polizia, ci porta subito e come al solito alla commedia all’italiana.

MM: C’era pure il console d’Austria, mi pare. 

AM: Giorni dopo l’arresto di Genovese cominciano le dichiarazioni dei vicini di casa. Tutti confessano di essere stati angosciati per quell’ultimo piano che teneva svegli: ciascuno di loro ha sopportato, ha allertato le forze dell’ordine, qualcuno ha parlato con Genovese che in un primo momento si è dimostrato gentile e poi ha smesso di rispondere al telefono.

MM: Era in k-hole! D’ora in poi lo dirò anche io. Scusa, non posso rispondere, ti richiamo, sono un attimo in k-hole.

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