Steve Carell e Domhnall Gleeson in The Patient ©2022, FX NETWORKS 

Cari psicoanalisti, se le storie si chiamano fiction un motivo ci sarà

Mariarosa Mancuso

Nuova ondata psicoanalitica nelle serie e nei film. Luminari preoccupati per come la terapia viene presentata

“Ricorda, ricorda”, ordina la dottoressa Ingrid Bergman a Gregory Peck, che proprio suo paziente non è. Sarebbe il nuovo direttore della clinica (il vecchio Dr Murchinson ha dovuto abbandonare per esaurimento nervoso). Ma quando un uomo adulto non tollera le forchette capovolte, con i rebbi che tracciano righe sulla tovaglia, tanto a posto non deve essere. Non lo è. Ma la dottoressa Bergman si è già innamorata, e intende sperimentare su di lui la nuovissima “cura viennese” delle libere associazioni.
    

Il dottor Freud era morto da qualche anno, quando Alfred Hitchcock girò “Io ti salverò”. In vita aveva rifiutato centomila dollari del 1921, e altre meno generose proposte: cinema e psicoanalisi avrebbero dovuto procedere su strade diverse. Temeva il sensazionalismo, ricorda l’Economist in un articolo dedicato all’onda psicoanalitica nelle serie e nei film (nel 1906 ne girarono uno muto, prima celebrazione della cura fondata sulla parola). Detto e fatto: oltre al “ricorda ricorda”, Hitchcock commissiona la sequenza del sogno a Salvador Dalì.
       

“Dovrebbero essere gli amici ad ascoltarti, e gli psichiatri a darti consigli. E invece succede il contrario”. Jonah Hill si lamenta con il suo psicoanalista Phil Stutz perché tace. Il luminare (vero) ha curato pazienti per 40 anni: artisti e criminali, non solo persone che andavano da lui spiegando “il mio principale difetto è che son troppo buono”. Metodo di cura, i disegnini. Ma anche l’amicizia e la gentilezza.

      

Dovendo scegliere, preferimmo la dottoressa Jennifer Melfi dei “Soprano” (l’attrice Lorraine Bracco, davvero non riusciamo a immaginarne un’altra adatta al personaggio). Il suo studio, con statuetta di donna nuda, è l’ultimo posto dove Toni Soprano vorrebbe trovarsi – “un posto dove dire tutto quel che passa per la testa”, figuriamoci, che avrebbe detto di Vito Corleone? (Abbiamo idee altrettanto forti e “scandalose” su cui costruire una serie oggi? Pare di no). Un altro paziente arrivato dai margini della legge ammoniva “io frocio, tu morto” (citazione, tra virgolette, anno 1999, mettete fuorilegge “Terapia e Pallottole” se ne avete il coraggio).
     

 

La collezione nuova non è altrettanto attraente (in seconda posizione teniamo caro Gabriel Byrne di “In Treatment”). Jason Segel di “Shrinking” – su Apple tv a scadenze settimanali (dopo i primi due episodi per drogare gli spettatori che poi non riescono a smettere) – visibilmente si annoia quando i pazienti parlano. E fin qui nulla di strano, la noia dell’analista è ormai materia di studio. In un film si era visto uno strizzacervelli che durante l’ora (freudiana, con il dottore di spalle al paziente) andava a pranzo e tornava con il tovagliolo al collo.
     

“The Doctor is In”: Lucy esponeva il cartello nel suo banchetto, la vittima era sempre il povero Charlie Brown. In “Patient”– Disney+, che sfrutta il catalogo Hulu e riserva sorprese adulte – seduto sul divano c’è un serial killer. Vuole guarire, e per questo tiene prigioniero l’analista Steve Carrel in cantina, i piedi legati alla catena. Di scappare non se ne parla. 
   

Sorte simile a quella dello scrittore James Caan nel film “Misery”, torturato da una lettrice che non vuole leggere la morte dell’eroina a cui era tanto affezionata. Freud parlava in effetti di “romanzo familiare”, siamo tutti legati da storie e da parole. Gli psicoanalisti interrogati sull’Economist si dichiarano preoccupati. Secondo loro, una terapia che funziona non necessariamente dà origine a un dramma interessante. I pazienti finiscono per farsi venire delle idee. Bella scoperta: se le storie che leggiamo e vediamo si chiamano “fiction”, un motivo ci sarà.

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