Michele Santoro (Ansa)

Un po' martiri, un po' giullari

Venerati santoni, maestri del bluff televisivo

Andrea Minuz

Alla celebre teoria del “venerato maestro” di Arbasino andrebbe aggiunta l’ulteriore sfumatura del guru: dispensa massime sapienziali dall'alto del suo ruolo. Il piccolo schermo lo rigenera: da Santoro a Sgarbi, da Bettini a Grillo, tutti accumunati da un solo archetipo

L’ultimo progetto l’ha lanciato ieri, al Piccolo Eliseo di Roma. È un “progetto con due gambe”, dice Michele Santoro. È il ritorno di “Servizio Pubblico”, stavolta a forma di una app “contro la guerra, per diffondere informazioni ignorate e censurate”. Ma è anche un’associazione per la pace che avrà il compito di “arrestare la distruzione del pianeta, per un mondo nuovo”. Con la sua app Santoro auspica il passaggio “dai social al socialismo”, in una svolta molto “Elon Musk” del vecchio anchorman barricadero, per una Silicon Valley antifascista. Santoro entra insomma nell’èra dell’algoritmo e celebra a suo modo l’anniversario di un conflitto che l’ha riportato finalmente al centro della telepolitica italiana. Saggista, polemista, giornalista, europarlamentare, conduttore e ospite televisivo, editore multimediale, promotore di liste pacifiste e di app, Santoro non è riducibile a nessuna di queste figure, e allo stesso tempo sfugge alla somma delle parti. Santoro è Santoro, come Sanremo. Un truismo. Una tautologia. “Non mi sento un reduce, mi sento uno che ha ancora cose da dire”, diceva in un battibecco con Gad Lerner qualche anno fa sull’opportunità o meno di ritirarsi, di andare in pensione. Ma i guru e i santoni non vanno in pensione. Entrano e escono dalla tv, restano vigili, sempre acquattati nell’ombra. In tutti questi anni di onoratissima carriera Santoro si è guadagnato l’indubbio ruolo di santone dell’indignazione. Dove l’atto dell’essere indignato, la statura del risentimento, sono più importanti dell’oggetto scatenante, la guerra, la Nato, la corruzione, i “potenti della terra”, le diseguaglianze, il Cda della Rai, Renzi o il Pd di Letta. Alla celebre teoria del “venerato maestro” di Arbasino (“c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di brillante promessa a quella di solito stronzo, solo a pochi fortunati l’età concede di accedere alla dignità di venerato maestro”) andrebbe aggiunta l’ulteriore sfumatura del “santone” o del guru, che è in fondo sganciata dall’età. Santoro, per esempio, studiava da santone già ai tempi di “Samarcanda”, snodo di carovane, crocevia tra mondi, “sogno color turchese”, basta evocarla e l’oriente ti assale.

 

Figura carismatica, costruita e amplificata dalla televisione, il santone è detentore di verità autoevidenti, guru della polemica e coscienza critica dell’intrattenimento. Cerca e trova l’ascesi nell’ipervisibilità, nell’ubriacatura di conferenze, imprese editoriali, ospitate, tournée, libri a getto continuo, ruoli più o meno istituzionali, come le dieci cariche di Vittorio Sgarbi, santone della bellezza, neoeletto in Lombardia, sottosegretario alla Cultura, sindaco di Sutri, assessore alla Cultura di Viterbo, commissario per le Arti di Codogno, prosindaco di Urbino, presidente della Fondazione Ferrara arte, del Mart di Trento, del Mag di Riva del Garda e della Gypsotheca del Canova. Dopo l’infame editto bulgaro del 2004, e la conseguente epurazione dalla Rai, Michele Santoro fu eletto sia nelle circoscrizioni del nord-ovest che del sud. Approdò quindi a Bruxelles. Qui divenne membro della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni; membro della Commissione per la cultura e l’istruzione; membro della delegazione alla commissione parlamentare mista Ue-Croazia; membro della delegazione alla commissione di cooperazione parlamentare Ue-Russia. Quindi tornò in tv. Perché l’immagine del santone trae forza e vigore dall’epurazione. Più si è epurati, più si torna in televisione. Vale per Santoro come per Sgarbi. “Io sono stato il primo epurato della televisione italiana: prima da Mediaset, poi dalla Rai, nel 2002 fui estromesso anche dal governo, disinnescato per tre anni, senza plausibili motivazioni”, diceva Sgarbi.

 

Divisi su tutto, Sgarbi e Santoro si assomigliano in quanto santoni. Ai movimenti di piazza e di opinione di Santoro, Sgarbi replica col partito della Bellezza, il partito della Rivoluzione, il movimento “Rinascimento”. Al posto della Verità di Santoro, ecco le battaglie per i borghi, i palazzi quattrocenteschi, le rotatorie delle strade provinciali, le pale eoliche. Sgarbi va a Pietrabbondante, provincia di Isernia, per ammirare la bellezza del Molise dall’alto ma sul crinale della collina trova le pale eoliche e s’incazza: “Pensare che un luogo come questo sia dominato da questi enormi cazzi di 150 metri è una cosa folle. Se le devono mettere in culo una per una le pale eoliche”. Solo un santone può parlare così. Come la “puzza di merda nelle stanze del potere” evocata da Santoro nel suo ultimo libro. E che dire degli assessorati, così santoriani, creati da Sgarbi quando divenne sindaco di Salemi? Assessorato al Nulla, assessorato alla Creatività, assessorato ai Sogni, alla Beatitudine, alle Mani in pasta. Una performance continua, un happening ahimè interrotto dai giudici che sciolgono il comune per mafia (ma Sgarbi, va detto, s’era già dimesso, era già altrove, verso nuove avventure e imprese). Mancava solo l’assessorato che non c’è, come il partito di Santoro. Quando quest’estate stava per “sbarcare” in politica non si pensò certo a un capriccio del momento (Michele Santoro non “scende in campo” come un qualsiasi Cav., “sbarca”, come i migranti delle Ong).

 

Poteva forse Santoro restare indifferente a una florida stagione di antifascismo alle porte, come ai bei tempi delle piazze, dei girotondi, di “Bella Ciao” cantata a cappella nello studio di “Sciuscià”? Poteva farsi da parte mentre tutti questi miscredenti della sinistra diventano intonatissimi cantori della globalizzazione, della Nato, del mercato? Certo che no. La chiamata all’impegno era insomma atto necessario e dovuto. Dopo l’approdo sulla piattaforma ByoBlu, patria della controinformazione antagonista che svela le verità che non vi dicono, Santoro lanciava il “partito che non c’è”, prequel della app contro la distruzione del pianeta. Una specie di ultra-mega-sinistra à la Vauro, talmente a sinistra da ritrovarsi poi nelle uscite più imbizzarrite di Berlusconi su Putin. Un partito che non c’è subito alleato del nuovo Conte, versione Mélenchon a collo alto, nemico acerrimo del “Pd atlantista”. Le idee c’erano, ma da dove partire? “Si parte da chi ha partecipato alla serata ‘Pace proibita’ al teatro Ghione”, diceva Santoro. E quindi Montanari, Sabina Guzzanti, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Fiorella Mannoia, Elio Germano, il fido Ruotolo, Luciana Castellina, Donatella Di Cesare, Freccero collegato da casa su Zoom, e Fiammetta Cucurnia, compagna di Giulietto Chiesa, che nel frattempo da Giletti spiega le ragioni di Putin: “Ha invaso l’Ucraina perché Zelensky stava fabbricando l’atomica con l’aiuto degli americani, lo dice un’agenzia della Tass”. Passata l’estate, passate le elezioni, consegnato il paese chiavi in mano alle famigerate “destre”, il partito che non c’è è diventato il partito che non c’era.

 

Ma Santoro è rientrato subito in pista. Era infatti uscito nel frattempo il suo pamphlet, “Non nel mio nome”, “un grido di dolore contro l’orrore che ci lascia ormai indifferenti”, “un j’accuse che chiama in causa tutti”, e che stupisce un po’ non aver trovato tra i titoli della biblioteca middlebrow e democratica di Matteo Messina Denaro. Ripartiva allora la vecchia giostra dei talk-show. Libro al seguito, Santoro, l’immortale, tornava al centro della scena. Vestito sempre come Conte, maglia a collo alto nera, giacca, in ricordo dell’alleanza tra i Cinque Stelle e il partito che non c’è, Santoro si rivede da Gruber, da Berlinguer, da Giletti, va a prendersi gli applausi da Floris dicendo, “questa non è una guerra dell’Ucraina contro la Russia, è la guerra della Nato contro la Russia” (forse dovremmo mandare armi e aiuti a Putin, stiamo sbagliando tutto). Speculare e simmetrico all’accumulo vertiginoso di ruoli, programmi, liste, partiti, assessorati e ipervisibilità televisiva è invece lo spogliarsi d’ogni carica. Qui il peso simbolico del santone è inversamente proporzionale al ruolo.

 

Si prenda Bettini, ad esempio, santone della sinistra che non c’è. Che carica ha nel Pd? Quale ruolo istituzionale? Eppure da anni è il custode dei valori, delle radici, l’anima della vera missione del Pd, qualunque essa sia. Se Grillo, santone dell’antipolitica, si fa chiamare l’Elevato, Bettini è soprannominato “il Monaco”. “Un po’ per i suoi camicioni indossati fuori dai pantaloni”, scriveva Fabrizio Roncone sul Corriere, “un po’ per questo suo vivere frugale in case piccole, modeste. La penultima fu confusa da Cesare Romiti per una specie di ufficio: ‘Ci vediamo nel solito scantinato?’. ‘Ma veramente, caro Cesare, in quello scantinato io ci abito’”. Un eremo per calmare la mente, un’oasi di pace per prendersi una pausa nello sciabordio delle correnti del Pd.

 

Bettini in tv si vede poco, è raro avvistarlo nei talk-show della sera, ma lo si trova magari a “Omnibus”, forse per via del fuso orario con la Thailandia (quando si collega è incorniciato da una foto di Pasolini appesa al muro, come il ritratto di Mattarella nelle scuole, negli uffici pubblici, nelle questure). Nominato “Cavaliere della corona Thai” da sua Maestà Bhumibol Adulyadej, con una cerimonia in costume che si è svolta all’ambasciata thailandese sulla Nomentana, Bettini è diventato in questi anni più che il grande vecchio del Pd, burattinaio, ideologo e fabbricante di creature politiche, una specie di personaggio conradiano sconfinato oltre la linea d’ombra, come Marlon Brando in “Apocalypse Now”. Coperto solo d’indumenti leggeri, nell’aria calda dell’oriente tropicale, tra i rami frondosi dell’isola di Koh Samui, dove nel tempio di Khunaram è custodito il cadavere del monaco mummificato, nella sua grande casa thailandese, “il cui valore può essere paragonate a tre stanze al Circeo”, come tiene sempre a specificare, Bettini immagina il Pd del futuro. Qui a Koh Samui si custodisce l’Arca dell’alleanza con Conte e i Cinque Stelle. La promessa, per la sinistra italiana, di un percorso catartico, di redenzione e purificazione dai suoi mali.

 

È chiaro che rispetto al “venerato maestro” il santone gioca sempre sul filo del bluff, come un equilibrista. Un funambolo sull’abisso del ridicolo (che è uno dei grandi talenti del santone: per esempio, Santoro può dire in modo credibile, autorevole persino, “un governo che è contro la povera gente”, una misera banalità, un cliché, una frase fatta per tutti, ma per lui no). Santoro sente puzza di servizi e trattativa dietro l’arresto di Messina Denaro. “Non mi convincono quei selfie in clinica, forse gli conveniva farsi prendere”. Trent’anni fa, costernato per il calo di ascolti di “Moby Dick”, diceva la stessa cosa dell’Auditel: “Non mi convince. Incaricherò i miei legali di richiedere formalmente la documentazione comprovante la verità dei dati diffusi e le modalità con le quali sono state effettuate le ponderazioni”. Chi sa parli.

 

L’intervista a “Piazza Pulita”, andata in scena lo scorso anno, col discepolo Formigli che celebrava il maestro, libero di spaziare, di variare, di andare a braccio tra i mali del mondo seguendo l’agenda Santoro, andrebbe studiata nelle scuole di giornalismo come esempio di cosa significhi essere un santone televisivo. E chissà quanto se l’è gustata Matteo Messina Denaro, che per uscire dalla “narrazione unica” sull’Ucraina mandava in chat alle amichette i link con gli interventi di Santoro (chat da conservare, da tramandare ai posteri come spaccato di antropologia italiana purissima: “Questo in televisione non lo dicono!”, scriveva Messina Denaro, che è il simmetrico complottista del vecchio adagio, “l’ha detto la televisione”, caro agli anziani). In televisione il santone non è un ospite come un altro. Presenza fissa o intermittente occupa uno spazio preciso che solo lui e nessun altro può occupare. Il santone appare. Si manifesta. La sua non è una semplice ospitata, ma un’epifania. L’ultimo spettacolo di Beppe Grillo è pieno di suggestioni mistiche. L’Elevato evoca una nuova religione personale tutta da fondare. Grande santone d’Italia, tra i primi insieme a Celentano a giocarsi la trasformazione mistica, Grillo non può accontentarsi di un’impresa terrena, come un partito o un movimento. Chi ha visto lo spettacolo trova particolarmente riuscita la gag della religione. Come trent’anni fa, quando si rideva delle sue sparate sulla politica e un eventuale ingresso in Parlamento. Figuriamoci.