Il peggior virus italiano è non saper essere spudorati, immorali e avventurosi
“La religione del Lusso” di Costantino della Gherardesca
Questo nuovo libro di Costantino della Gherardesca non c’entra niente con gli altri della Pandemiade, l’afflitto catalogo editoriale su come ne usciremo, rientreremo, parleremo, e svariati altri futuri chiromantici. Un catalogo copioso, sebbene in lockdown gli scrittori si dicessero in blocco creativo, e anche triste, e infatti l’ufficio stampa che te ne propone un volume ti scrive prima per accertarsi che tu stia bene, seguitando a specificare “per quanto sia possibile”, e se e solo se risulti in salute, a lavoro, con a casa tutti bene, pur non abbassando il tono dell’afflizione, ti spedisce questa “lucida analisi sul mondo che verrà”, che il più delle volte è un rigido manuale comportamentale che vuole addestrarti a un futuro di apocalissi intermittenti, privazioni, decrescite, riformulazioni, rimpicciolimenti e insomma una reductio ad angustiam di tutto.
Fedele al beau vivre, invece, Costa approfitta di questo tempo di zelanti ripensamenti e simulate afflizioni per dirci che ora più che mai dobbiamo ritrovare il gusto del glamour, dell’estro, dall’amoralità, dell’esagerazione, dello sfarzo, dell’eccezionalità. Non è un libro scritto per proporre soluzioni per la vita nuova anche se verrà probabilmente scaffalato tra quegli altri che lo fanno, visto anche che in quarta di copertina si legge: “Chi l’ha detto che in tempi di crisi si deve parlare solo di sacrifici?”.
“La religione del lusso” (Rizzoli Lizard) è un libro che racconta molto bene la ritrosia dell’Italia a essere spudorata, immorale, creativa, avventurosa, febbrile, sanguigna, e tutto ciò che il suo brand è ed incarna all’estero; come ci siamo ingrigiti, appassiti, vergognati, pentiti; quanto insapore e scipita e amara abbiamo reso la dolce vita, la nostra prima, vera, irriproducibile eccellenza (possono copiarci la pizza ma la dolce vita no, capite? E noi lì a puntare sul km zero, noiosi); come abbiamo smesso di essere superbi, unici, tenaci, goduriosi, abiurando tutto. “Negli anni abbiamo sviluppato e metabolizzato un francescanesimo avvilente”, e forse qui è impreciso: quel francescanesimo lo abbiamo sempre avuto, e fintanto che era disarcionato e libero, era un tratto ulteriore della nostra identità composita, poi però s’è alleato con altro, e da fede s’è fatto ostentazione di virtù, e ha generato quel pauperismo inibitorio che ci rende un paese di radical chic senza radical e col senso di colpa per lo chic. Eravamo gli storti, gli impetuosi, i seduttori, e ora siamo gli incappucciati, quelli che se spendono in cappellini devono dar conto al fisco. “Se il fisco americano avesse contestato a Liberace l’acquisto delle sue chilometriche stole di ermellino, le sue esibizioni avrebbero avuto lo stesso successo?”. Non si tratta di elogiare il lusso e il godimento e gli eccessi perché la vita è una, breve, iniqua, e probabilmente dopo la morte non c’è che polvere, ma per assicurare al paese un clima non ostile alla fantasia, al sogno, alla creazione, e quindi anche al pensiero complesso e magari turpe, ma fecondo e libero.
“Siamo una distopia populista: non abbiamo una lira, ma non facciamo altro che parlare di questioni di principio. Vorremmo essere intolleranti, ma riusciamo solo a essere intollerabili”.
Come ne veniamo fuori? Innanzitutto riconoscendo i nemici, ammettendo il problema, come si fa con le psicosi. Nel ricco elenco di stronzi che Costa compila ci sono i giornalisti che attaccano Barbara D’Urso accusandola di eccedere in trash (e senza capire che il trash è trash se e solo se eccede), e opponendole non un servizio di qualità ma programmi in cui “l’aspirazione è scoprire che i piumini sono fatti con vere piume di oche che hanno molto sofferto”; i telespettatori che si complimentano con lui per l’educazione (“Non capiscono che sono represso”); i politici annacquati dalla trasparenza (“una democrazia matura deve saper celare le sue peggiori intenzioni geopolitiche sotto uno strato di cipria”). E noi, tutti noi, che anziché comportarci come ricche mignotte di Singapore, almeno ogni tanto, e puntare sempre a rovesciare il dato presente, ci accomodiamo sul suo palco e a Liz Taylor preferiamo Gwyneth Paltrow, e anziché salare la vita preferiamo sanificarla.