“Romolo+Giuly” è i vecchi vizi delle serie all'italiana

Mariarosa Mancuso

Abbiamo imparato a girare le serie tv ma caschiamo sempre nell’Italia dei mezzi campanili. Il lavoro di Michele Bertini Malgarini ne è la prova

Siamo moderni, giriamo le serie, ma ricaschiamo sempre nell’Italia dei campanili. Mezzo campanile: Roma nord schierata contro Roma sud (vale anche il contrario). Trascinando nella mischia William Shakespeare e soprattutto Baz Luhrmann, che nel 1996 aveva ambientato nella californiana Verona Beach il suo “Romeo+Giulietta” con Leonardo DiCaprio & Claire Danes. Gli innamorati divisi dalla rivalità familiare sono romanamente ribattezzati “Romolo+Giuly”. Lui un Montacchi, ha per genitore il re della monnezza. Lei una Copulati, erede dei palazzinari che allignano al nord. La seconda metà del titolo, che allude a una guerra mondiale italiana, svela che nella vicenda entrano anche Milano e Napoli: altrettanto caricaturali, fungono da esca per gli spettatori non romani.

 

Romolo+Giuly” è prodotta da Fox (e su Fox va in onda, otto puntate dallo scorso lunedì). Con l’intenzione di ripetere il successo di “Boris”, la serie che sfotteva i prodotti audiovisivi italiani scritti male e recitati peggio (la parola “fiction” andrebbe risparmiata, in questi casi: meglio il giro di parole). Ma “Boris” era a suo modo universale, le brutte sceneggiature, gli attori mediocri, i registi incapaci, le troupe svogliate si trovano dappertutto, anche dove il cinema e la tv sono migliori dei corrispettivi nostrani. Roma nord contro Roma sud resta una nicchia, di recente invenzione comica. Complice un video virale su YouTube, e un episodio pilota premiato nel 2016 al Roma Web Fest.

 

Giocavano in casa, con spettatori che alle frasi “La breccia di Corso Francia” o “le sirene di Ponte Milvio” o “le miniere di cocaina di Vigna Clara” già ridono (chi a suo tempo spiegò che il tragico è universale, mentre il comico è geolocalizzato aveva in mente cose così). La busta con la nebbia padana potrebbe essere Totò – e già un po’ allarghiamo l’orizzonte. Il regista Paolo Sorrentino, odiato a Napoli perché “La grande bellezza” l’ha girato a Roma, è tormentone cinefilo, e un po’ generazionale. Totalmente generazionale è il pupazzo T’ciù, che conosce in carcere il televenditore Giorgio Mastrota (nella parte di se stesso): se non eravate davanti alla tv quando andava in onda “Bim Bum Bam”, e quindi niente sapete del pupazzo Uan, lasciate ogni speranza. Si inoltrano nelle campagne padane per avere alleati, ma rifiutano di dare la caccia ai “negher” – finché pietoso non arriva il traduttore simultaneo: “Caccia ai terroni” (un avvocato di Crotone con toga e valigetta scappa inseguito dai forconi).

 

Togli di qui e leva di là, resta la guerra tra i coatti che se vogliono andare dallo psicoanalista devono spacciarlo per personal trainer (la professione lì è fuorilegge) e i fighetti che trattano le filippine come animali domestici (“ti ho regalato un cucciolo”, dice la mamma di Giuly alla figlia che va sposa, dopo aver firmato gli accordi prematrimoniali). Come da copione, tre Montacchi travestiti si infiltrano a Roma nord, dopo aver superato con l’inganno il check-point. Sullo sfondo, il Ponte della Musica, o Ponte Veltroni (di nuovo, ridono solo i romani). A una festa – nel castello dei Copulati che sopra lo stemma di famiglia ha il cartiglio “Coca Progresso Figa” – Romolo incontra Giuly, e si innamorano.

 

Lo spettatore un po’ si diverte e un po’ si annoia. La trama la sappiamo – anche se qui la fanno partire dai Garibaldini. Citazioni e rimandi alla lunga sono forzati: Leonardo DiCaprio e Claire Danes amoreggiavano in piscina; Romolo sbaciucchia Giuly dietro la boccia del pesce rosso di Boris.

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