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l'analisi

I social network, l'antidoto non la malattia

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Dietro ai moderni regolatori europei l’ombra del venerabile Jorge, il bibliotecario del “Nome della rosa”. Ma la dispersione della conoscenza, pur con le sue contraddizioni, resta il vaccino più efficace alle derive autoritarie

C’è un’immagine potente, indelebile nella memoria culturale europea, che sembra aleggiare, spettrale e ammonitrice, sopra i palazzi di Bruxelles e le sedi delle autorità antitrust di mezzo continente ogni volta che si discute di regolamentare le grandi piattaforme digitali. E’ l’immagine di Jorge da Burgos, il venerabile e cieco bibliotecario de “Il nome della rosa” di Umberto Eco. Jorge, nel suo fanatismo custode di un ordine immutabile, arriva ad avvelenare le pagine del secondo libro della Poetica di Aristotele – quello dedicato alla Commedia e al riso – pur di impedire che la sua lettura corrompa le menti dei monaci, liberandole dalla paura.

 

Oggi, osservando la sequenza di sanzioni miliardarie, di inchieste antitrust e di normative involute e talvolta cervellotiche come il Digital Services Act o il DMA che l’Europa brandeggia come spade contro i giganti del web a stelle e strisce, è difficile non scorgere un riflesso, o quanto meno un’ombra, di quel vecchio bibliotecario. I moderni regolatori europei, novelli Jorge, sembrano terrorizzati da questa moderna “Commedia di Zuckerberg”: un testo caotico, disordinato, sguaiato, dove il riso si mescola all’insulto, la verità alla menzogna, ma dove – ed è questo che fa paura – la conoscenza e le relazioni non sono più mediate da un clero secolare di editori, partiti o istituzioni, ma fluiscono orizzontalmente, reticolari e incontrollabili.

  

C’è, in questo accanimento terapeutico normativo, una inconfessata ma palese invidia: l’Europa punisce ciò che non è stata in grado di creare. Come purtroppo alcuni studiosi avevano messo in guardia ormai decenni orsono con le analisi sull’internazionalizzazione dei beni digitali, l’Europa ha fallito nel generare i propri campioni digitali non per mancanza di ingegno, ma per un eccesso di frammentazione dei mercati e per un proibizionismo legale paternalistico sui dati – di cui il GDPR e la proliferazione di autorità di controllo su base nazionale sono l’apoteosi – che ha impedito quelle economie di scala e quelle esternalità di rete che sono il motore del successo delle piattaforme Usa. Abbiamo frammentato il mercato unico digitale prima ancora che nascesse, con cervellotiche regolamentazioni ex ante e un’ossessione per i rischi invece che un interesse per le opportunità (e, imperterriti, continuiamo e insistiamo, con l’AI Act) e ora guardiamo con sospetto chi, invece, ha saputo costruire ecosistemi globali.

 

Ma al netto del risentimento geopolitico, è necessario un atto di onestà intellettuale ed economica. Dobbiamo difendere i social media. Non per quello che sembrano – bacheche di vanità o sfogatoi di rabbia – ma per quello che sono realmente e che spesso sfugge a una lettura superficiale: non semplici “media”, ma vere e proprie reti sociali organizzative, i nuovi “sistemi operativi” delle nostre comunità ed economie. E come Jorge sbagliava nel credere che sopprimere il riso avrebbe salvato la vera fede, così sbagliano oggi coloro che credono che imbrigliare o “avvelenare” tecnologicamente queste reti possa salvare la “vera” democrazia. La dispersione della conoscenza, pur con le sue contraddizioni, resta l’antidoto più efficace alle derive autoritarie.

 

Oltre la superficie: i social network come ecosistemi

Sgombriamo il campo da un equivoco semantico che inquina il dibattito pubblico da vent’anni. Continuiamo a chiamarli “social media”, ponendo l’accento sulla componente editoriale, sul “contenuto”. E’ un errore di prospettiva fondamentale. In un saggio scritto ormai quasi due decenni fa, “Social network tra istituzioni e imprese”, già si proponeva una chiave di lettura diversa: queste piattaforme non sono né mercati né gerarchie nel senso accademico e coasiano del termine. Sono ecosistemi.
Il modello di business che vi sottende non si limita allo scambio economico tradizionale di beni e servizi. I membri di un social network non sono riducibili al ruolo passivo di “clienti” o “utenti” a cui vendere qualcosa, e nemmeno a quello di “prodotto” venduto agli inserzionisti (il famoso adagio “se è gratis, il prodotto sei tu” è una semplificazione da bar dello sport). Sono invece stakeholders, portatori di interessi complessi, che svolgono contemporaneamente funzioni di produzione, consumo, distribuzione e validazione del valore.
Facebook, Instagram, LinkedIn o X (ex Twitter) hanno abilitato processi organizzativi innovativi. Hanno abbattuto sia i costi di transazione sia quelli di coordinamento in un modo che nessun modello aziendale tradizionale avrebbe mai potuto sognare. Hanno reso la struttura a “legami deboli” – per citare Granovetter – economicamente più efficiente delle strutture a legami forti tipiche delle aziende tradizionali. Un tempo, per mobilitare risorse intellettuali, coordinare un progetto o lanciare un brand, servivano capitali, uffici, e catene di comando. Oggi, i social network permettono a un ecosistema economico di auto-organizzarsi. Pensiamo a come le piattaforme abbiano permesso la nascita di mercati “bifronti” (two-sided markets), dove la piattaforma sussidia una parte (gli utenti che usano il servizio gratis) per massimizzare le esternalità di rete che vengono poi monetizzate sul lato degli inserzionisti. Non si tratta di commercio (o peggio, come pretenderebbe qualche talebano della privacy, di “furto”) di dati, ma di un sofisticato meccanismo di sussidi incrociati e di generazione e cattura di attenzione, che crea valore per tutti i partecipanti, riducendo le asimmetrie informative.
 
 

L’Homo Influencer e la democratizzazione dell’impresa

Questa trasformazione dei social da “piazza” a “infrastruttura economica” è resa evidente dall’ascesa di una figura spesso derisa dall’establishment culturale, ma economicamente rivoluzionaria: l’Influencer. In un breve saggio di alcuni anni fa, “Economia del Social Influencing”, si definisce l’influencer non come un fenomeno di costume, ma come un nuovo modello organizzativo.
Laddove ieri serviva una redazione, un ufficio marketing, una rete di vendita e un’agenzia pubblicitaria, oggi basta un singolo individuo dotato di uno smartphone e di una connessione. La piattaforma digitale ha fornito a costo zero (o quasi) un pacchetto di servizi professionali – produzione, distribuzione, analisi dati, incasso – che prima erano appannaggio solo delle grandi corporation. L’influencer è l’imprenditore unipersonale che internalizza funzioni che in precedenza il mercato manteneva frammentate, creando un’integrazione verticale “leggera” basata sulla fiducia e sulla reputazione, o come la chiamiamo oggi, la “followship”.
Questo non è un dettaglio: è la democratizzazione dei mezzi di produzione del valore reputazionale. E’ la fine dell’oligopolio editoriale che decideva chi avesse diritto di parola e chi no. Certo, questo ha aperto le porte, come vedremo, anche ai ciarlatani. Ma ha permesso a milioni di micro-imprese di accedere a mercati globali, ha permesso ai talenti di emergere senza passare per le forche caudine dei gatekeeper tradizionali. Il social influencing ha trasformato l’attenzione incidentale in intenzione economica, creando un mercato multilaterale dell’attenzione che è, a tutti gli effetti, una forma di creazione di ricchezza distribuita.

   

La legge di Gresham dell’informazione e la trappola della censura

Non v’è chi non veda, tuttavia, le ombre che si allungano su questo paesaggio. Se i social sono ecosistemi, sono anche soggetti all’inquinamento. La critica più feroce riguarda la qualità dell’informazione: fake news, hate speech, polarizzazione.
In una lettera al direttore del Foglio pubblicata alcuni anni fa, intitolata “Insulto scaccia commento”, avevo proposto di applicare alle fake news che inquinano i social media la celebre legge di Gresham: come la moneta cattiva scaccia quella buona, così l’informazione aggressiva, falsa e di bassa qualità tende a scacciare dal mercato dell’attenzione i commenti pacati e l’analisi rigorosa.
Il meccanismo è perverso ma razionale: produrre una bufala o un insulto ha un costo marginale prossimo allo zero. Produrre un’analisi verificata costa tempo e fatica. In un regime di gratuità apparente, l’utente medio applica quella che gli economisti chiamano “ignoranza razionale”: perché fare fatica a verificare le fonti quando posso consumare uno snack informativo emotivamente appagante? Siamo di fronte a una “Tragedy of the Common News”: pascoliamo opportunisticamente sulle praterie informative gratuite fino a renderle sterili.
Ma qui sta il punto cruciale, dove il liberale si separa dal novello Jorge da Burgos. La soluzione a questo degrado non è l’intervento censorio dello stato. Non è un “Ministero della Verità” europeo che decide ex ante cosa è vero e cosa è falso. Ogni tentativo di imporre vincoli normativi ai contenuti equivale a dare al postino il diritto di leggere le nostre lettere prima di consegnarle.
Queste piattaforme non sono “essential facilities” di proprietà pubblica, ma comunità – per quanto estesissime – di privati cittadini. Attribuire loro responsabilità editoriali sui contenuti degli utenti (come vorrebbe certa regolamentazione) significa costringerle a diventare censori preventivi per evitare rischi legali. Il risultato sarebbe un danno economico enorme, una riduzione del surplus sociale e una discrezionalità arbitraria affidata ad algoritmi difensivi.
La risposta alla legge di Gresham non è il divieto di coniare moneta, ma l’introduzione di meccanismi di mercato che alzino il “prezzo” della reputazione. Dobbiamo rendere costoso mentire, non illegale parlare. La tecnologia, se lasciata libera di innovare, sta già sviluppando anticorpi: sistemi di social rating distribuito, autenticazione tramite blockchain, e soprattutto la reazione degli inserzionisti pubblicitari che, legittimamente, non vogliono associare i loro brand a contenuti tossici. Il mercato sanziona l’inaffidabilità meglio dei tribunali. L’insulto e la fake news devono diventare economicamente marginali e quindi irrilevanti, non politicamente perseguitati.
 
   

Due facce della medaglia: la tassazione del dato e l’illusione del valore gratuito

Un altro fronte su cui i “nuovi inquisitori” attaccano le piattaforme è quello fiscale ed economico, basato su un fraintendimento colossale del valore dei dati. Si sostiene, con un’argomentazione che piace molto ai tassatori incalliti, che il conferimento dei dati personali da parte degli utenti sia una “transazione economica” tassabile, un baratto nascosto.
Questa tesi va smontata con i ferri del mestiere dell’analisi economica. Gli utenti non sono lavoratori non retribuiti delle piattaforme. La fornitura dei dati è incidentale, passiva, priva di intenzionalità economica diretta. Il valore non sta nel dato grezzo del singolo (che potrebbe valere al più qualche millesimo di centesimo), ma nella capacità della piattaforma di aggregare, elaborare e trasformare quei dati in segmenti di audience per gli inserzionisti.
E’ lì, nel rapporto B2B tra piattaforma e inserzionista, che avviene la creazione di valore monetizzabile e tassabile. Tassare l’interazione utente-piattaforma sarebbe come tassare i lettori che entrano in una biblioteca gratuita solo perché la loro presenza giustifica i finanziamenti che la biblioteca riceve. Questi modelli di business “bilaterali” si basano sul principio del sussidio incrociato: gli utenti ricevono servizi gratuiti (email, cloud, social networking) perché la loro “attenzione” genera esternalità positive per il lato pagante del mercato. Se distruggiamo questo meccanismo con tasse assurde o con la pretesa che ogni click sia un contratto di lavoro, cancelliamo anche un surplus di grandissimo valore per i consumatori.

   

Difendere i social dal potere, non il potere dai social

Infine, c’è l’argomento politico. I social sono accusati di essere veicolo di populismi, di aver favorito l’ascesa di figure come Trump (o di averla ostacolata quando lo hanno bannato).
Va invece sostenuta una tesi che potrebbe apparire controintuitiva: la vera urgenza non è proteggere i politici dallo strapotere delle piattaforme, ma proteggere le piattaforme dall’interferenza dei politici. Sembra paradossale ricordarlo oggi, ma quando Twitter (ora X) sospese l’account di Trump, prima della sua seconda elezione alla Casa Bianca, molti gridarono alla censura e alla violazione della libertà di espressione. Ma Twitter non è lo Stato. Il diritto alla libera espressione non implica il diritto a essere ascoltati da milioni di persone utilizzando un megafono privato altrui. Trump, o chiunque altro, se viola le regole del “club privato”, può essere allontanato.
Il vero pericolo per la democrazia non è che Mark Zuckerberg o Elon Musk decidano chi può parlare sulla loro piattaforma (se sbagliano, il mercato li punirà con la migrazione degli utenti verso altri lidi, come in parte sta accadendo). Il pericolo è che i governi utilizzino queste infrastrutture per sorvegliare, manipolare o silenziare il dissenso. O che, con la scusa della “disinformazione”, impongano una verità di stato.
In paesi autoritari, i social sono i primi a essere spenti o controllati. Perché? Perché sono reti di coordinamento sociale. Sono lo strumento con cui i cittadini si organizzano, denunciano soprusi, condividono prove. In Ucraina, in Iran, a Hong Kong, i social network sono stati la linea vita della resistenza civile. I novelli Jorge vorrebbero che queste pagine fossero “pulite”, sicure, approvate dal bollo governativo. Ma una rete sociale “pulita” in quel senso è una rete morta, o peggio, una rete di regime.
 
   

Conclusione: l’innovazione prima della regola

Torniamo dunque alla nostra biblioteca in fiamme. Umberto Eco ci ha insegnato che la paura della conoscenza non controllata genera mostri. I social network sono oggi quella “Commedia” aristotelica: imperfetti, rumorosi, talvolta volgari, pieni di contraddizioni. Abilitano il meglio e il peggio dell’animo umano, perché sono specchi, non filtri.
Ma sono anche la più grande infrastruttura di coordinamento e cooperazione che l’umanità abbia mai costruito. Hanno ridotto i costi di accesso al mercato, hanno permesso a chiunque di diventare “editore” di sé stesso, hanno creato un’economia dell’attenzione che, seppur con distorsioni, ha generato valore reale.
Ammettere i rischi – la manipolazione, la dipendenza algoritmica, la privacy – è doveroso. Ma la risposta di una società liberale non può essere il proibizionismo o la trasformazione delle piattaforme in public utilities statalizzate e sterili. La risposta deve essere più tecnologia, non meno.
Servono algoritmi trasparenti, non algoritmi di stato. Serve educazione digitale per i cittadini, affinché imparino a distinguere la moneta buona da quella cattiva, e non una polizia del pensiero che lo faccia per loro. Serve concorrenza vera, abbattendo le barriere all’ingresso che paradossalmente proprio le normative eccessive (come il GDPR) hanno alzato a dismisura, proteggendo gli incumbent americani dalle startup europee.
Lasciamo che la “Commedia” continui. Non avveleniamo le pagine del libro digitale per paura che qualcuno rida troppo forte o dica sciocchezze. Perché in quel riso, in quella connessione disordinata e libera, sta l’unica vera difesa contro chi vorrebbe un mondo di silenzio e obbedienza. I social network sono imperfetti, sì. Ma sono nostri. E sono, oggi, lo spazio di libertà che dobbiamo difendere, prima di tutto da noi stessi e dalla nostra paura del nuovo.

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