Ansa

La strategia

Il caso Apple mostra come limitare la concorrenza con la chiave della privacy

Giuseppe Colangelo

Dietro il dichiarato intento di assicurare una maggiore tutela e controllo da parte degli utenti sui propri dati personali, si cela in realtà l’obiettivo di conseguire vantaggi anticoncorrenziali a scapito dei rivali e degli utenti commerciali

Un antico adagio ammonisce che la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. L’esito è ancor più ineludibile se queste ultime sono persino fittizie. A questo scenario è riconducibile la policy (App Tracking Transparency - ATT) adottata alcuni fa da Apple con la quale la stessa ha introdotto nuovi requisiti di consenso e di notifica, modificando il modo in cui gli sviluppatori di app possono raccogliere e utilizzare i dati dei consumatori per la pubblicità sul sistema operativo iOS.

 

Nello specifico, a partire dall’aggiornamento sulla privacy introdotto in iOS 14.5, Apple ha implementato un meccanismo di opt-in che impone agli sviluppatori di app concorrenti regole più restrittive rispetto a quelle che la stessa Apple applica a sé. Tale trattamento differenziato riguarda principalmente le caratteristiche del prompt con cui si chiede agli utenti il permesso affinché l’app possa tracciarli. Mentre, nel caso delle app sviluppate da Apple, l’opzione positiva del consenso è messa in primo piano e l’oggetto del consenso riguarda i servizi personalizzati (piuttosto che il tracciamento dell’attività di navigazione dell’utente), il design del prompt per gli sviluppatori di terze parti enfatizza maggiormente il rifiuto, fa riferimento alle attività di tracciamento su app e siti di altre aziende e non offre informazioni sui benefici che l’utente può ottenere dalla pubblicità personalizzata. In secondo luogo, solo per gli sviluppatori di terze parti, la policy ATT introduce un doppio opt-in, che richiede all’utente di dare il consenso al tracciamento per ogni accesso a diverse app, anche quando tali app sono collegate tra loro.

 

Dietro il dichiarato nobile intento di assicurare una maggiore tutela e controllo da parte degli utenti sui propri dati personali, si cela in realtà l’obiettivo di conseguire vantaggi anticoncorrenziali a scapito dei rivali e degli utenti commerciali. Infatti, imponendo una procedura differenziata tra la raccolta del consenso dell’utente per i servizi pubblicitari di Apple e quella per i servizi pubblicitari di terze parti, la ATT policy introduce una discriminazione che favorisce i servizi pubblicitari di Apple e rafforza la sua posizione nella distribuzione delle app a detrimento dei concorrenti. L’efficacia della pubblicità personalizzata e la redditività complessiva del modello di monetizzazione basato sulla pubblicità dipendono infatti dalla capacità di effettuare il tracciamento dei dati. Il trattamento differenziato imposto da Apple con la ATT policy agli sviluppatori di app di terze parti è così destinato a ridurre i loro ricavi pubblicitari e, di conseguenza, il loro livello di competitività rispetto ad Apple. Studi accademici hanno mostrato come la ATT policy abbia avuto un impatto negativo significativo sugli sviluppatori di app e su altre imprese, senza aver migliorato la comprensione ed il controllo degli utenti sull’uso dei dati. Anzi, alcuni studi hanno evidenziato come il prompt di ATT generi in realtà una diffusa confusione.

 

La strategia è tanto subdola quanto ingegnosa, perché trasforma la tutela della privacy in un pretesto per legittimare condotte anticoncorrenziali. Del resto, se la policy di Apple fosse genuinamente finalizzata esclusivamente a tutelare in maniera più efficace la privacy dei consumatori, perché tale policy si applica solo ai suoi concorrenti? L’inganno non è passato inosservato a diverse autorità antitrust di numerosi paesi europei (Francia, Germania, Polonia, Romania e Italia) che hanno negli ultimi anni aperto procedimenti contro Apple contestando la intrinseca natura e gli effetti anticompetitivi della policy in oggetto.

 

Quando mancano poche settimane alla conclusione del procedimento italiano, sul tavolo dell’Autorità antitrust si gioca la partita più rilevante, quella dei rimedi. Non è in discussione, infatti, l’illiceità della condotta di Apple, quanto la definizione di soluzioni che, anziché essere meramente cosmetiche, eliminino il trattamento differenziato e penalizzante per i concorrenti. Rimedi effettivi a sanare la discriminazione tra i vari operatori sono essenziali ad evitare che la vittoria dell’Autorità possa essere meramente simbolica e scongiurare che novelli paladini della privacy possano agire come il cavallo di Troia dell’antitrust.

 

Giuseppe Colangelo, professore aggregato di Markets, Regulation and Law alla Luiss, e di Legal Issues in Marketing all’Università Bocconi

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