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Cose dai nostri schermi

L'eterno ritorno diVine

Pietro Minto

Alcuni imprenditori vogliono riportare in vita lo storico social network dei video brevi e verticali, chiuso nel 2017. Il progetto fa leva sulla nostalgia di un ricordo breve e positivo nelle menti di milioni di persone

Ci stanno riprovando, vogliono riportare in vita Vine, lo storico social network dei video brevi e verticali, ben prima che TikTok popolarizzasse e industrializzasse il genere. Questa volta tocca a una cordata di imprenditori capitanata da Jack Dorsey, cofondatore di Twitter, azienda che possedeva Vine stesso. Il progetto si chiama diVIne e si baserà su un archivio storico di circa centomila contenuti del Vine originario, salvati prima che venisse chiuso. Ma diVine non sarà un museo, anzi, permetterà di creare contenuti nuovi, nella speranza che le lancette tornino indietro di un decennio e la cosa prenda piede.

 

 

Iniziative di questo tipo sono ormai comuni, specie quando si parla di social network un po’ d’antan, ascesi e caduti prima che il dibattito globale venisse monopolizzato da parole come “doomscrolling”, “algoritmo”, “big tech” e simili. Insomma, prima che queste tecnologie mostrassero il loro lato oscuro. C’è stato un momento in cui i cosiddetti “broligarch” non possedevano letteralmente le principali app del mondo, e in cui le fantomatiche startup nate nei garage californiani erano ancora un’immagine vicina. Si poteva quasi toccare.

 

Almeno per la generazione dei Millennial, Vine rappresenta quel mondo perduto (insieme forse a Tumblr, che però è ancora tra di noi e resiste, nonostante gli acciacchi dell’età): la sua chiusura, nel 2017, fu vissuta come un’ingiustizia, un errore. Prima di diVine, già nel 2018 provarono a resuscitarlo con il progetto v2. Non se ne fece nulla, Vine rimase dov’era, nell’iperuranio dei social network chiusi prima che marcissero dall’interno. L’effetto nostalgia nasce proprio dall’aver lasciato un ricordo breve e tutto sommato positivo nelle menti di milioni di persone che da allora si sono spostate altrove, sugli inevitabili Instagram, YouTube e TikTok.

 

Sull’onda del “buon vecchio web” di una volta, diVine nasce con una policy molto severa contro i contenuti generati con le intelligenze artificiali, quasi a dichiararsi un’oasi di genuinità in una rete infestata del cosiddetto “slop”. Basterà? Pronostici a parte, il punto sembra un altro: tentativi simili sono molto anacronistici, più basati sui sentimenti che su un’analisi di mercato, perché si riferiscono a un web e a un mondo che non esistono più. Lo stesso Vine, negli ultimi diciotto mesi di vita, andò svuotandosi, perché Twitter (l’azienda che l’aveva acquisito prima ancora che andasse online) non capì mai cosa farci. 

 

Inevitabilmente, le star di quel social network, tutte giovanissime, cominciarono a guardarsi attorno e a spostarsi verso nuovi lidi dove monetizzare quella viralità imprevista. E non tutti i “viner” furono simpatici, geniali e positivi: su Vine, del resto, mossero i loro primi passi i fratelli Jake e Logan Paul. Su YouTube la chiamarono “The Vine Invasion”, fu un’invasione di giovanissimi scapestrati che nel 2017 decisero che sarebbero diventati youtuber, perché Vine, per quanto divertente, era disfunzionale e “povero”. Gli youtuber veri, quelli come PewDiePie, passarono mesi a lamentarsene, un po’ preoccupati dalla nuova concorrenza, ma anche infastiditi dal livello di contenuto proposto dai nuovi arrivati.

 

Dopo un’agonia fin troppo breve per essere percepita dai più, Vine morì e fu subito santificato, tanto che siamo ancora qui a proporre esperimenti alla Frankenstein per riportarlo in vita, nonostante oggi il web social sia talmente dominato dai video verticali da rendere Vine del tutto inutile. Un vezzo passatista, forse, o una dichiarazione di astio nei confronti del panorama digitale, in cui la libertà creativa dei primi utenti di Vine stupisce. 

 

Era un mondo che aveva da poco conosciuto il concetto di viralità, in cui mancavano le infrastrutture necessarie a trasformare un uomo che fa i panini in una catena di negozi di successo (vedi Donato De Caprio di “Con mollica o senza?”). E poi non c’era l’algoritmo, inteso come forza potentissima in grado di incanalare gli utenti in una filter bubble precisissima e inquietante: c’era più caos, nel bene e nel male, e quindi meno soldi.

 

Insomma, Vine è la nostra gioventù, un momento in cui tutto sembrava più facile, eravamo più giovani e spensierati, e quindi ci viene spontaneo cospargerlo di miele e dimenticarci dei suoi problemi. E del fatto che, se fosse durato ancora qualche anno, sarebbe probabilmente diventato come il suo fratello maggiore, e cioè Twitter. Meglio così.

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