Ansa
L'intervista
Labriola ci spiega la crisi delle Tlc, e come se ne può uscire
“Non vogliamo sovvenzioni, immaginare interventi dello stato con una logica assistenzialista è una visione miope, occorre invece una strategia industriale, in Italia e in Europa. Le licenze del 5g? Sarebbe auspicabile anticipare il rinnovo”. Intervista all’amministratore delegato di Tim
C’è una crisi della quale non si parla anche se colpisce un’industria che ogni giorno fornisce servizi fondamentali per la nostra vita. Non è un settore antico, non è l’acciaio, il vetro, la carta, eppure consuma altrettanta energia ed è attraversato da un salto tecnologico forse ancor più radicale di quello che scuote l’automotive. Nonostante ciò, non sta in cima all’agenda politica, alle scalette dei media o alle preoccupazioni dell’opinione pubblica. Non continuiamo con l’indovinello, sveliamo subito l’arcano: stiamo parlando delle telecomunicazioni che contribuiscono per oltre 134 miliardi di euro al pil italiano pari al 6,1% del totale (poco più dell’intero settore automobilistico) e investono ogni anno 7 miliardi di euro in infrastrutture. Oggi si svolge a Roma il forum nazionale organizzato dall’Asstel, l’associazione nazionale che fa capo alla Confindustria, che vuol mandare un messaggio senza fronzoli: non c’è più tempo, occorre agire subito. Il presidente dell’associazione Pietro Labriola (amministratore delegato della Tim), spiega al Foglio le ragioni profonde della crisi, annunciando un ventaglio di proposte concrete e molto impegnative per le imprese, per i sindacati, per il governo. Cosa chiedono gli operatori che in Italia si sono sfidati con una concorrenza diventata distruttiva?
“Non vogliamo sovvenzioni, immaginare interventi dello stato con una logica assistenzialista sarebbe una visione miope, occorre invece una strategia industriale, in Italia e in Europa”, premette Labriola. I punti chiave sono sei: regole chiare per attrarre investimenti; costruire infrastrutture digitali per lo sviluppo; il costo delle frequenze è insostenibile; l’energia è troppo cara; trasformare i call center da un centro di costo a un centro di profitto; attrarre competenze e lavoro qualificato. Ma c’è un cruccio di fondo che il presidente esprime anche a nome di tutti gli associati: manca la consapevolezza di quanto sia profonda la crisi. Tra il 2010 e il 2024 un terremoto ha scosso l’intera telefonia italiana. I ricavi generali sono scesi del 33% da 41,9 a 28 miliardi di euro, peggio ha fatto la telefonia mobile con un crollo del 44% da 17,1 a 9,8 miliardi. I prezzi sono piombati del 40% nel loro insieme in parte per effetto delle innovazioni tecnologiche, ma soprattutto per la guerra delle tariffe che è stata in Italia più cruenta che altrove con la perdita di quasi 14 miliardi di euro. In Francia nello stesso periodo i ricavi si sono ridotti di 6.1 miliardi, in Spagna di 8 miliardi, in Germania sono rimasti stabili, nel Regno Unito sono addirittura aumentati. Mentre nel resto d’Europa il mercato è cresciuto sia pure meno che nelle Americhe dove ha fatto segnare un più 7 per cento o in Asia (+16%), l’Italia ha subito una caduta del 15%. Se nei paesi occidentali le telecomunicazioni sono un settore maturo, in Italia è in corso un vero e proprio declino.
Labriola non fa il profeta di sventure, vuole piuttosto suonare il campanello d’allarme. “Mal comune non è mezzo gaudio, è epidemia”, dice con una battuta. In troppi si sono cullati sui fasti di un passato ormai lontano a cominciare dai governi che hanno pensato di ricavare il più possibile dai servizi telefonici, senza rendersi conto di come e quanto stava cambiando il mercato. Le aziende hanno continuato ad investire nella infrastruttura, a costo di veder crollare la redditività e svuotarsi le casse (il saldo di cassa nel 2010 era pari a 10,5 miliardi di euro, oggi è praticamente a zero). A quel punto hanno messo il piede sul freno.
Prendiamo le frequenze in concessione. Il rinnovo è previsto nel 2029, troppo tardi vista la velocità con la quale cambia il mercato. “Sarebbe auspicabile anticipare il rinnovo, ma occorre scegliere se vogliamo l’uovo oggi o la gallina domani”, rilancia Labriola ricorrendo a una metafora semplice e chiara. Nel 2018 dall’asta per le licenze per il 5G il Tesoro ha intascato tra 7 e 8 miliardi di euro, più che in altri paesi, ma il risultato è che l’Italia ha una copertura inferiore. Nel 2020 quando era a capo di Tim Brasile (prima azienda telefonica del paese sudamericano per città coperte in 4G e 5G) Labriola ha proposto uno scambio: licenze a basso prezzo (appena 600 milioni), con l’obbligo di costruire la rete 5G nel più breve tempo possibile, oggi la copertura è del 63% e si tratta del 5G Stand Alone che ha un tempo di latenza molto basso e consente di sfruttare tutte le potenzialità di questa tecnologia. In Corea il governo fa pagare poco le frequenze in una logica di politica industriale, anche la Gran Bretagna ha seguito una strada simile. “Attenzione – precisa il presidente dell’Asstel – parliamo di 5G SA altrimenti possiamo dimenticarci la telemedicina, la guida autonoma, l’intelligenza artificiale, ma anche start up che sviluppino le applicazioni. L’Europa è indietro, l’Italia è il paese messo peggio. Al governo abbiamo detto non fateci pagare e noi vi diamo la rete in 4-5 anni. Vi diamo la gallina”. E’ la proposta più nuova, anche se non l’unica.
Il peso dei costi denunciato da Asstel non si ferma certo alle licenze. L’energia è un onere ormai insopportabile: i prezzi, sempre dal 2010 ad oggi, sono aumentati del 115%. “Noi siamo una industria energivora, però non ci viene riconosciuto”, denuncia Labriola. Pochi se ne rendono conto e ancora meno se ne preoccupano. I criteri per compensare gli extracosti sono quelli del secolo scorso basati su grandi impianti produttivi. “Noi siamo una grande fabbrica, ma diffusa nel territorio, consumiamo molta energia, anzi ne consumeremo anche di più con l’espansione dell’intelligenza artificiale che ha bisogno di grandi data center”. Una delle richieste, dunque, è un cambio di mentalità che si accompagni a un cambio di politica energetica e tariffaria. Labriola si ferma un attimo e passa, come gli piace fare, dal lessico high tech al lessico familiare: “Non chiediamo la luna, diciamo solo: fateci campare e noi possiamo costruire l’infrastruttura digitale del paese”.
Più costi e meno redditi, mentre gli operatori hanno continuato a moltiplicarsi utilizzando estensivamente la leva del prezzo che ha avvantaggiato i clienti a scapito dei bilanci delle imprese. “Siamo in troppi a dividerci la stessa torta e non esiste il miracolo della sua moltiplicazione. E’ vero in Europa, ancor più in Italia” insiste Labriola e dà il benvenuto al processo di consolidamento che ha visto prima il matrimonio tra Wind e H3G, poi tra Vodafone e Fastweb, mentre si comincia a parlare di una possibile fusione tra Iliad e Wind3. In questo modo resterebbero tre operatori, ciò consentirebbe di ridurre i costi, facendo riprendere fiato e accelererebbe gli investimenti necessari a ripartire nelle nuove condizioni di mercato. Ci sarà meno concorrenza? Il mercato di riferimento non può più essere nazionale, ma quanto meno europeo. Il Vecchio continente ha 45 grandi imprese e investe nelle reti la metà degli Stati Uniti dove ci sono solo otto operatori; hanno più vantaggio in termini di servizi ed efficienza i consumatori europei o quelli americani?
L’altro laccio (e non è affatto un lacciuolo) riguarda le norme ormai inadeguate alla nuova rivoluzione tecnologica e costruite con ottiche nazionali, ciò ha aperto una pericolosa asimmetria. “Soggetti apolidi” come gli over the top, fanno arbitraggio sulle regole e vanno dove ci sono quelle più favorevoli. Prendiamo Whatsapp: non ha una sede in Italia, non risponde al fisco italiano, non garantisce la tracciabilità, non è un servizio di telecomunicazioni eppure viene usato sempre più per parlare non solo per scambiare messaggi. Occorre mettere la normativa internazionale sullo stesso piano e scegliere un punto di riferimento comune. Perché non il cliente, cioè chi usa il servizio e non chi lo fornisce né dove lo produce? “Non ho io la soluzione. Le regole sono necessarie – precisa Labriola – ma debbono cambiare e in modo rapido. Per raggiungere 100 milioni di clienti telefonici ci sono voluti 75 anni, per Facebook sette anni, TikTok due anni, ChatGPT sei mesi. Quando ho cominciato a lavorare in questo settore si operava in un mondo fisico, reale, e locale; internet ha creato una seconda dimensione, digitale e globale ad una velocità un tempo impensabile. Cosa accadrà quando il digitale avrà fagocitato il reale?”
Il presidente di Asstel fa una pausa e, affinché il suo messaggio non diventi apocalittico, ribadisce di credere nel rilancio delle telecomunicazioni. “Abbiamo fatto una forte scommessa sottoscrivendo con i sindacati l’ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto di lavoro”, aggiunge e cita l’esempio di Verizon: il grande operatore americano ha annunciato il licenziamento di 15 mila persone su 100 mila dipendenti. La società non va male, l’anno scorso ha ricavato 134 miliardi di dollari e 18 miliardi di utili. Tutte le imprese della filiera delle telecomunicazioni impiegano 200 mila dipendenti, con appena un miliardo di utili, ma non licenziano. Il nuovo contratto introduce aree professionali per valorizzare le competenze delle persone e guidare la trasformazione superando i vecchi livelli e valorizzando l’occupabilità, collegando in modo più diretto le responsabilità ai percorsi di crescita. “Abbiamo assunto impegni per garantire sostenibilità economica e occupazionale e contrastare i fenomeni di dumping contrattuale – precisa Labriola – anche per rispondere alle sfide che l’innovazione digitale pone ad aziende e lavoratori. Possiamo riprenderci, ma non possiamo fare miracoli per questo è necessario cambiare il modo di lavorare e occorre una chiara strategia industriale. Altrimenti ci avviamo su una strada senza ritorno. La nostra è una corsa contro l’estinzione di una industria strategica per il paese”
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