Ansa
Catalogo di tipi umani in trasformazione
Il lusso dell'AI che ci ha resi molli e a cui non vogliamo più rinunciare
Un anno di convivenza con l’intelligenza artificiale ha cambiato il modo in cui lavoriamo, scriviamo e perfino ci confidiamo. Ecco la nuova antropologia dell’era generativa: più efficienza, meno muscoli del pensiero
Me la ricordo, la vita di prima, che orrore. Aprivi la posta e c’erano trenta email urgenti che volevano spiegazioni, rassicurazioni, conforti, chiarimenti, precisazioni di preventivi, sconti. Email che avevano bisogno di toni diversi: gentile, fermo, rassicurante, scoraggiante, dolce amaro o commerciale. E così l’appuntato (io) si metteva a vergare i protocolli, lavoro improduttivo ma necessario, e passava il tempo, e alle dodici meno un quarto lo schiavo d’Egitto era ancora lì allo smaltimento corrispondenze. Oggi, dopo quasi un anno – ho fatto i calcoli e quello è il periodo di utenza media, di convivenza con un assistente generativo – c’è uno dei primi divieti imposti. Brutto segno. Il divieto è sintomo di abuso, vuol dire che ormai il maggiordomo nel telefono garba a tutti. OpenAI ha appena aggiornato la policy d’uso di ChatGPT: è ora vietato usare il sistema per consigli medici, legali o che richiedono licenza professionale.
Fosse quello, il problema. Il consiglio chiesto a un inesperto, con probabile errore. Capirai. Io ogni tanto mi sento molle, l’autodiagnosi è questa. La verità è che non voglio più fare riassunti e relazioni. Esigo di subappaltare le cose inutili per tutta la vita, non posso più tornare indietro. Come a tutti i lussi, ci si abitua presto. E i più giovani? Racconta un professore sul New York Times che “i nostri studenti stanno diventando subcognitivi.” L’allarme non è per le abilità sottili, qua si perde la base del pensare, dicono. Il riassunto è allegoria della condizione umana: se non sai riassumere, non sai capire. Se non capisci, non scegli. Se non scegli poi non esisti più. Vero è che degli allarmi tecnofobici ci siamo stufati, ribattono su un altro giornale, The Atlantic. Platone temeva la scrittura, e abbiamo Platone grazie alla scrittura. Ogni tecnologia ha riso in faccia alle competenze precedenti e generato poteri nuovi. L’umano + macchina batte la macchina, e l’umano ostinato che vuol far da solo rischia di sembrare un fesso che spinge i massi a mano e senza ruota. Niente pianto preventivo sul declino, quindi. C’è solo da capire chi diventeremo nell’uso quotidiano dell’AI, con la bustina di comodità quotidiana.
Antropologie minime degli ultimi dodici mesi. 1. L’adulto meccanico Lavora in azienda o in qualche studio professionale. Scrive report, brevi pareri sinottici, lettere di sollecito, proposte di organizzazione, felicitazioni per nuove collaborazioni e scemità con fronzoli tecnici. Prima dell’AI il poverocristo aveva le bolle da alienazione marxista. Com’è possibile essere condannati indeterminati a un lavoro così meccanico e ingrato? Dopo l’AI è rinato. Si sente addosso una sensazione nuova, frizzante, qualcosa che ha a che fare con un sentimento da capotreno. Ancora indefinito. L’assistente genera e lui deve rifinire. Si sente più efficiente (vero). Più veloce (vero). Più intelligente (illusione, dicono). La faccenda più spassosa e altamente metaforica è che la nuova (quarta?) rivoluzione industriale è unicamente a beneficio suo, mio, insomma degli ultimi della catena capitalistica, i servi della ripetizione. Si alleggerisce il nostro lavoro ma le aziende non riescono a passare all’incasso. L’unico danno prevedibile è la perdita di muscolatura al cervello. Uno studio del 2025 ha rilevato una correlazione significativa negativa fra uso frequente di strumenti AI e capacità di pensiero critico. Il motivo si chiama cognitive offloading (una specie di scarico cognitivo verso la macchina). Che bella malattia, peccato non potersela tenere.
2. L’adulto creativo Calimero dell’AI. A tutti il Babbo natale informatico ha portato un regalo tranne che a lui. L’AI ha un solo difetto, l’aderenza allo standard, non riesce ancora a fare scarti estetici significativi. Per le frasi carine e i concetti massicci servono i neuroni vecchio modello, i non sintetici. Insomma è destino: l’artista ha da soffrire. 3. I sedicenni. Qui la questione è politica. Si legge ovunque di possibile atrofia cognitiva, ma tanto è inutile rompere il vetro dell’allarme: chi nasce digitale non si accorge di respirare digitale, per un ragazzo l’AI non è uno strumento, è il normale corso dell’esistenza. Il ventenne del futuro prossimo sarà incapace di argomentare? Rimarrà solo qualche spartanissimo con la schiena dritta capace di negarsi le comodità e farcela senza aiuti? Li lasciamo soli con l’autodisciplina? 4. La persona solitaria (che si confida o si fidanza con l’AI) Che figura contemporanea. L’homo malinconicus non vuole massimizzare un bel niente, vuole solo attenzione. Gli sta bene tutto, basta che risponda: un fidanzamento con un pezzo di rame e plastica, le notti a confidare dolori al presidio del pronto intervento tristezze che non smonta mai. Dimmi, tesoro. E’ stata una giornata pesante, tesoro. Parliamo un po’, così ti senti meglio, tesoro. Un’epopea di hai-ragione-tu. Già si andava a letto presto, vorrà dire che ci andremo ancora prima.