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intelligenza artificiale
Con l'intelligenza artificiale è il momento della rivincita delle news
Sta per finire la tirannia dell’algoritmo, che ha indotto una serie di professioni, dal marketing al giornalismo, a organizzarsi per andare a caccia di traffico in rete. A sconfiggere la rincorsa continua al click è l’Ai, che usa criteri diversi e premia l’originalità e l’autorevolezza delle fonti. Ma non tutti festeggiano
In un mondo dove aumentano i tiranni, c’è una tirannia che invece sta finendo, ma chi l’ha subita non sembra festeggiare. Anzi, chiede di poterla preservare ancora un altro po’, non si sa bene in attesa di cosa. E’ la tirannia dell’algoritmo, che da una quindicina d’anni ha imposto a una serie di professioni, dal marketing al giornalismo, di adeguarsi alla logica della Seo (Search engine optimization) e quindi di organizzarsi per andare a caccia di traffico, privilegiando velocità e quantità rispetto ad altre metriche di maggiore rilevanza per il pubblico, come l’autorevolezza e la credibilità.
La Seo adesso se non è proprio morta, è comunque in uno stadio terminale e per il giornalismo dovrebbe essere una buona notizia. A sconfiggere la rincorsa continua al click è l’intelligenza artificiale, che usa criteri diversi e premia l’originalità e l’autorevolezza delle fonti. Con l’arrivo sul principale motore di ricerca al mondo, Google, delle opzioni Overview e AI Mode, si è cominciato a vedere l’effetto della rivoluzione in atto. Dopo anni in cui gli editori sono andati a inseguire l’algoritmo, costruendo fabbriche di contenuti “Seo oriented” tutti mirati a portare traffico ai propri siti di news, adesso è l’algoritmo che insegue i giornalisti per valorizzare contenuti autorevoli.
E’ arrivato il momento in cui la qualità vince sulla visibilità, è finita la schiavitù dei titoli scritti con le parole chiave scelte per cercare di adescare il motore di ricerca, dei tag e delle keywords prodotte su scala industriale per vincere una battaglia fatta solo di quantità e traffico (un approccio che non appartiene al Foglio, ma al quale hanno ceduto tanti editori importanti). Presto non saranno più premiati quei siti che appartengono a testate giornalistiche anche autorevoli, dove si sceglie di spingere in alto il delitto di Garlasco rispetto alla liberazione degli ostaggi a Gaza perché fa più click. O dove si apre la pagina con i sedicesimi di finale di un torneo di tennis dall’altra parte del mondo, solo perché così si può usare la preziosa parola-chiave “Sinner”, che crea traffico ormai come le ben rodate “Ferragni” e “Fedez”.
L’era della Seo tramonta, si entra nell’epoca dell’Aio (Artificial intelligence optimization) e a vincere saranno le fonti che l’AI riterrà più autorevoli. Dovrebbe quindi essere un buon momento per il giornalismo, per celebrare la fine della tirannia e il ritorno ai fondamentali di una professione che deve concentrarsi sulla fiducia dei lettori, non sui click. Sorprende per questo vedere iniziative come quella lanciata nei giorni scorsi dalla Fieg, la Federazione degli editori, che ha presentato un reclamo formale all’Agcom contro il servizio AI Overviews di Google. Un’iniziativa, ha spiegato la Fieg in una nota, presa di concerto con azioni analoghe promosse in altri paesi sotto il coordinamento dell’Enpa (European Newspaper Publishers’ Association), “con l’obiettivo comune e condiviso di ottenere dalla Commissione europea l’apertura di un procedimento ai sensi del Digital Service Act”, di cui Google a detta degli editori avrebbe violato le norme.
Il punto chiave dell’azione degli editori è quello di accusare la multinazionale americana di star diventando un “traffic killer” perché adesso mette in evidenza, sul proprio motore di ricerca, le risposte dell’AI prima dei preziosi link che portano alle fonti originali, cioè alle pagine delle news.
Non c’è dubbio che, a prima vista, si tratti di una preoccupazione legittima. Un paio di studi condotti negli ultimi mesi prima dalla società Authoritas e poi dall’autorevole Pew Research Center americano, indicano che nei paesi dove gli utenti hanno a disposizione la risposta dell’AI – tra questi l’Italia – il numero dei click sui link sia crollato in maniera drammatica, fino all’ottanta per cento. Le risposte dell’AI sono molto più interessanti e convincenti della tradizionale lista di siti web proposta da Google Search e stanno provocando un altro fenomeno significativo: invece di inserire nella “buca” delle domande del motore di ricerca solo alcune parole, le persone si stanno abituando a fare domande di senso compiuto, lunghe elaborazioni sempre più vicine a quelle di una discussione naturale, non di una richiesta a un computer. Per le nuove generazioni, inoltre, l’AI è già diventata un vero e proprio motore di ricerca: si rivolgono direttamente a ChatGPT per chiedere qualunque cosa, ignorando le tradizionali ricerche sul web.
E’ vero, dunque, che per gli editori c’è un problema. Drammatico, impellente, come quelli che stanno fronteggiando diverse professioni sfidate dall’AI, come commercialisti, consulenti, avvocati, assicuratori. C’è la prospettiva della perdita di molti posti di lavoro e del crollo di modelli di business pubblicitari costruiti sul traffico. Ma fare la battaglia contro i “traffic killer” è una risposta che poteva andare bene nel 2010, quando si cominciavano a vedere gli effetti del digitale sul futuro dei giornali. Quell’anno con Massimo Gaggi pubblicammo un libro-inchiesta, “L’Ultima Notizia” (Rizzoli), che metteva in guardia sulla necessità di cominciare a considerare le news come una commodity ormai priva di valore e a lavorare su un ecosistema nuovo dell’informazione, basato su analisi, approfondimenti, inchieste, oltre che su una miriade di nuove fonti d’entrata (eventi, academy, newsletter). Era anche il momento in cui si discuteva molto sulla necessità o meno di alzare dei paywall per proteggere il valore dei contenuti giornalistici e creare comunità di lettori disposte a pagare per l’informazione di qualità.
Gran parte degli editori rimasero immobili, chiusi a difendere l’esistente e lenti a reagire alla sfida del digitale. Adesso, nel 2025, ci si attiva per una battaglia che andava fatta nel 2010 e si chiede alle varie authority di intervenire per costringere la gente a cliccare sui link e a non lasciarsi catturare da risposte generate dall’AI, che sono assai più interessanti e utili. E’ come se si chiedesse a una qualche autorità di forzare le persone ad andare in edicola a comprare un giornale di carta, anche se non ne riconoscono più l’utilità.
Quello che sfugge – o che non si vuol vedere – è che l’AI non sta distruggendo il traffico, sta togliendo valore al traffico “vuoto”, quello fatto di contenuti ripetitivi, prodotti in serie e basati sulla dittatura della Seo. Si apre una grande opportunità, perché ChatGpt di OpenAi, Gemini di Google o Claude di Anthropic hanno un grande bisogno di contenuti e fonti originali e di alta qualità e valorizzeranno sempre di più questi, rispetto ad articoli scritti dalla Seo o scritti dalla stessa AI. In sostanza, l’algoritmo adesso agisce non inseguendo parole chiave, ma la reputazione. E’ il momento dell’autorevolezza e saranno le testate e i nuovi brand giornalistici capaci di dimostrarsi credibili, trasparenti e affidabili a vincere la partita. Non quelli che puntano sul traffico, un indicatore che è schiavo di logiche puramente tecnologiche.
L’AI non sta distruggendo il modello di business degli editori, ne sta solo mostrando l’intrinseca fragilità. Per chi non ha voluto farlo nel 2010, adesso è un momento in cui non si può più evitare di costruire nuovi modelli di ricavo basati sulla brand authority, sugli abbonamenti digitali, sulle attività collaterali che offrano un sostegno a un prodotto, la notizia, che da solo non ha più valore sufficiente per tenere in piedi la catena alimentare. E’ anche il momento giusto, non c’è dubbio, per alzare la voce con i colossi dell’AI e per chiedere ai regolatori di intervenire per definire bene le regole del gioco. Ma non per proteggere il traffico. La Seo Economy è sulla via del tramonto e, come la carta, non tornerà. Quello che serve è un intervento collettivo, governi in testa, per sciogliere i nodi della proprietà delle piattaforme di AI, che oggi sono nelle mani di una manciata di colossi tecnologici americani che, dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, non hanno più neppure lo spauracchio delle azioni antitrust che aveva avviato l’Amministrazione Biden.
Media, esperti di tecnologie e regolatori devono poi agire in modo coordinato per chiedere standard che garantiscano una reale valorizzazione del giornalismo di qualità da parte dell’AI. Le modalità sono molteplici: l’attribuzione obbligatoria delle fonti giornalistiche nelle risposte dell’intelligenza artificiale (questi sono i link che avranno davvero valore, non quelli del “traffico” generalista); meccanismi di revenue sharing; trasparenza sui dati e le fonti con cui viene addestrata l’AI; responsabilità per gli errori fattuali; protezione della diversità, per valorizzare non solo fonti internazionali e nazionali, ma anche quelle regionali.
Sono battaglie dall’esito incerto, ma meglio combattere queste che non alzare l’ennesimo muro per giocare in difesa di un sistema, quello attuale, dominato dalla tirannia del traffico. Agli investitori pubblicitari si può offrire una visibilità di qualità che ha molto più valore di quella fatta di banner e pop-up su siti infarciti di notizie di cronaca nera e privi di profondità e qualità. E’ il ritorno dell’autorevolezza e il giornalismo dovrebbe vedere nell’intelligenza artificiale non un nemico, ma l’alleato per liberarsi delle scorie di una stagione digitale costruita in modo maldestro e basata sul clickbait.
La storia insegna che proteggere l’esistente di fronte a un’innovazione rivoluzionaria non paga. Nel 1890 negli Stati Uniti c’erano 13.800 società che producevano carrozze per cavalli. Tutto l’ecosistema era costruito intorno al cavallo e al suo “traffico”, l’equivalente dei preziosi link che oggi si vorrebbero preservare. Di fronte all’arrivo delle prime automobili, si provò di tutto per salvare l’industria delle carrozze: ruote più forti e innovative, cavalli di razza più performanti.
Poi si chiese alle autorità di mettere divieti stringenti alla circolazione delle auto, accusandole di essere pericolose e inquinanti. Fu tutto inutile. Nel 1920 erano rimaste solo 90 società che producevano carrozze e dopo di allora sopravvissero solo quelle che si trasformarono in case automobilistiche (General Motors ha le proprie radici in quel mondo).
La velocità con cui è arrivata la rivoluzione dell’AI non può essere fermata cercando di proteggere i cavalli – un po’ azzoppati a dire il vero – dell’attuale ecosistema delle news. C’è l’opportunità di una nuova stagione di libertà per il giornalismo, pur con tutte le battaglie che saranno necessarie per farsi riconoscere autorevole dall’AI. Ma combattere a favore della Seo e contro i “traffic killer” è una scelta di retroguardia.