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Cose dai nostri schermi

E insomma, questo vibe coding?

Pietro Minto

Il termine descrive una nuova pratica che utilizza chatbot specializzati come Cursor per programmare. Ma esperti e imprenditori sembrano concordare: il codice generato dalle AI non è ancora abbastanza affidabile per sostituire i programmatori

Lo scorso febbraio Andrej Karpathy, ricercatore di spicco nel campo dell'intelligenza artificiale e tra i fondatori di OpenAI, ha coniato un'espressione che è entrata nel gergo comune, quanto meno in certi angoli del web: "vibe coding". Il termine descrive la pratica di programmare alla leggera, utilizzando chatbot specializzati come Cursor, senza sapere un acca di programmazione. L’idea era – ed è – di chiedere semplicemente all’intelligenza artificiale di generare codice per un’applicazione qualunque (qualcosa di semplice, ovviamente), per ottenere il codice in pochi secondi. Una magia, oltre che un notevole fattore di rischio per molte persone che lavorano come programmatori, e che rischiano di essere automatizzati, almeno in parte. Ma il codice in questione funziona davvero abbastanza da permettere al vibe coding di esistere?

 

 

La risposta è “più o meno”, e in questo scarto tra capacità effettive e hype si gioca una delle tante partite in corso nel settore delle AI. Non stupisce vedere che l’industria sia impegnata a gonfiare le aspettative su questo tipo di AI, con Dario Amodei, che ha previsto a inizio anno che entro “tre o sei mesi” il 90% del codice informatico sarebbe stato generato dalle macchine. Anche Mark Zuckerberg si dice sicuro. Sono previsioni azzardate, basate sulle notevoli capacità di questi strumenti, che hanno già cambiato la vita e il lavoro di migliaia di professionisti: difficile trovare un programmatore che non utilizzi le AI almeno per alcuni aspetti più ridondantie della scrittura di codice. Al tempo stesso, Anthropic è l’azienda che sviluppa Claude Code, altro servizio per la generazione di codice molto utilizzato. Il salto verso un'automazione del 90% della programmazione è però ben diverso, e diventa un vero e proprio abisso quando si parla di vibe coding e della promessa di macchine capaci di generare qualsiasi software su richiesta. 

 

Questa settimana sono arrivati due segnali che sembrano confermare i dubbi di alcuni sul vibe coding. Il primo arriva dalla persona che ha inventato il termine stesso, Andrej Karpathy, tra le menti più fine del settore, ex di Tesla e co-fondatore di OpenAI, che ha da poco lanciato NanoChat, un sistema innovativo che permette di sviluppare modelli linguistici personalizzati – simili a ChatGPT – con costi ridotti e funzionamento locale sul dispositivo dell'utente, senza bisogno di connessione continua a un data center. NanoChat è uno dei molti prodotti che cercano di creare un’alternativa più piccola e meno costosa a ChatGPT & co., anche grazie ai modelli “locali”. Ma la vera sorpresa è arrivata quando Karpathy ha precisato di aver programmato NanoChat interamente da solo, senza ricorrere al vibe coding. Ci ha provato ad utilizzare Claude Code, ha spiegato, ma il progetto si è rivelato troppo complesso e diverso dai pattern standard su cui i modelli linguistici sono stati addestrati. Ergo, meglio procedere manualmente. 

 

Il secondo episodio coinvolge l'imprenditore Chamath Palihapitiya, figura autorevole nel settore tecnologico, e non esattamente uno scettico trombone. In questi giorni, su X, l’ex Twitter, da un lato ha previsto che OpenAI, pur essendo in vantaggio, subirà nel lungo periodo la concorrenza di Meta e Google, che controllano enormi piattaforme e hanno un vantaggio incolmabile, a suo avviso. Dall'altro ha stroncato il vibe coding definendolo “poco serio” e criticando duramente la qualità del codice effettivamente generato. Le perplessità di Palihapitiya trovano conferma in un'inchiesta di 404 Media, che ha documentato la nascita di servizi e professionisti specializzati proprio nella "pulizia" del codice prodotto tramite vibe coding. Programmatori esperti che si offrono di correggere e ripulire il codice generato dall'IA per conto di persone senza competenze di programmazione che vogliono creare applicazioni. 

 

Senza di loro, il codice rimane inservibile, anche perché molti dei “vibe coder” non sanno metterci mano. In un momento storico in cui l’intero settore tecnologico sembra chiedersi se quella delle AI sia una bolla, quanto grande e quando scoppierà, il vibe coding rimane almeno uno dei pochi angoli in cui la posta in gioco non è altissima. Nè l’estinzione dell’umanità tanto temuta da alcuni, né il crack finanziario. Semplicemente un gioco che può interessare soprattutto chi sa già programmare e vuole divertirsi a sviluppare un progetto secondario. Per divertimento. Per chi si aspetta una macchina in grado di creare software di ogni tipo, come per miracolo, è meglio ricredersi.