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Lo scenario

Il caso albanese mostra tutti i rischi di una politica che delega all'AI

Anita Likmeta

Edi Rama ha presentato “Diella”, avatar digitale per gestire gli appalti pubblici. Non è folklore balcanico, ma un laboratorio in cui la responsabilità si sposta dal visibile al codice invisibile. Mentre l'intelligenza artificiale viene usata come alibi

La politica nasce dal limite. L’uomo, animale imperfetto, non ha mai posseduto la formula per conciliare interessi contrapposti, desideri inconciliabili, risorse scarse. Ogni comunità, nella storia, ha camminato lungo una strettoia: evitare l’anarchia senza precipitare nella tirannide. Reinhold Niebuhr ammoniva che la giustizia non è armonia celeste ma disciplina terrena: un contenimento che oscilla tra coercizione e resistenza, legge e amore, perché persino i legami più intimi sono incrinati dall’egoismo. La politica non è nata per redimere l’uomo, ma per impedirgli di divorarsi. Dentro questo orizzonte oggi entra l’intelligenza artificiale. Non come tecnologia neutra, ma come grammatica che pretende di riscrivere la logica della decisione. Non più semplice mezzo come televisione o internet, ma struttura che si insinua nei meccanismi della legittimazione.

 

L’equivoco sta nel presentarsi come tecnica quando è già linguaggio politico: la promessa di trascrivere il conflitto in formule di ottimizzazione. Già oggi governi e istituzioni usano l’AI come alibi: la decisione diventa necessità, l’arbitrio si traveste da calcolo. La frase più pericolosa del futuro non sarà “ha deciso il governo”, ma “non c’era alternativa, lo dicono i dati”. La differenza radicale è tra una legittimità che riflette, pur imperfettamente, la volontà della comunità e una che appare inevitabile, quasi naturale. La prima esige responsabilità, la seconda invoca necessità.

Edi Rama, in Albania, ha presentato “Diella”, avatar digitale per gestire gli appalti pubblici. Se funziona, il merito è politico; se fallisce, la colpa è della macchina. E’ il sogno di ogni classe dirigente: esercitare potere senza pagarne il prezzo. Non è folklore balcanico, ma laboratorio in cui la responsabilità si sposta dal visibile al codice invisibile. La vera domanda è politica. Non basta interrogarsi su dati corretti o bias ridotti: sono problemi tecnici. Il nodo è quale idea di giustizia, uguaglianza, libertà viene codificata, e chi decide che sia quella giusta. Ogni algoritmo compie scelte politiche: cosa raccogliere, come pesarlo, quali fini massimizzare. La pretesa di neutralità è già dissoluzione della politica. Immaginiamo un’AI incaricata di distribuire risorse globali in un mondo in cui la popolazione cresce più delle risorse. La macchina potrebbe certificare che alcuni paesi non raggiungeranno mai i livelli di benessere di altri, se non a costi enormi e inefficaci. L’ottimizzazione suggerirebbe di concentrare risorse dove rendono di più. La politica avrebbe un bivio: accettare la logica della necessità o rivendicare un principio di solidarietà che la macchina non può calcolare.

 

 

Le potenze autoritarie lo hanno capito. Russia, Cina, Corea del Nord non vogliono solo sopraffare l’occidente: vogliono dimostrarne l’inefficienza strutturale. Non attaccano tanto le tecnologie, ma la fiducia nei meccanismi democratici: disinformazione, cyberattacchi, manipolazioni digitali. L’AI è l’arma perfetta: non si impone dall’esterno, scava dall’interno. Più delega significa meno responsabilità, più calcolo significa meno fiducia. E se gli europei smettono di credere che il voto conti, l’Europa implode da sola. I segnali ci sono: gli Stati Uniti hanno sospeso il dialogo sul Kosovo, lasciandolo nelle braccia della Serbia di Putin. L’America non è più garante della stabilità europea. L’Europa ha vissuto in pace grazie alle basi Nato, non grazie a una propria sicurezza: era una pace in prestito, oggi revocata. Nel Mediterraneo Israele ha spostato parte della difesa a Cipro, colmando un vuoto che spettava all’Unione. In questo vuoto di responsabilità, l’AI rischia di diventare il tappeto sotto cui nascondere la polvere. Intanto la Cina mostra la sua potenza. Non è un capitalismo di Stato a metà tra socialismo e mercato, ma il capitalismo più radicale mai realizzato, privo di freni democratici. Alessandro Aresu lo ha detto chiaramente: “La Cina ha vinto”. Non perché inventa tecnologie migliori, ma perché ha costruito infrastrutture normative e tecnologiche che le reggono. Ha già scritto l’architettura della casa, e l’occidente rischia di entrarvi da ospite. Ecco il paradosso: l’occidente si proclama custode della libertà, ma si rifugia sempre più spesso nell’alibi della necessità.

 

E’ più facile dire “lo chiede l’algoritmo” che assumere la responsabilità del sacrificio. Più comodo invocare la neutralità che dichiarare la scelta. Ma la democrazia si misura qui: nella capacità di trasformare ciò che appare destino in decisione, e ciò che sembra inefficiente in giustizia. Thomas Sowell ricordava che non esistono soluzioni, solo trade-off. L’AI può mostrarli con precisione, ma non può decidere chi pagherà il prezzo. Quella è scelta politica, che richiede volto, nome, responsabilità. La delega all’AI non arriverà come colpo di stato, ma come processo carsico: un algoritmo nella burocrazia, un sistema predittivo per la sicurezza, un modello per le politiche pubbliche. Ogni passo sembra marginale, giustificato dall’efficienza, finché un giorno le decisioni cruciali non verranno più discusse ma certificate. La politica moderna viveva di discussione: parlamenti, media, partiti servivano a rendere visibile il conflitto e a legittimare la scelta. L’AI riduce questo spazio perché non mostra alternative: trasforma il possibile in probabile, e il probabile in ottimale. Così la politica rischia di diventare ratifica.

 

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