
(Ansa)
L'effimero diventa definitivo
Storia sociologica e giuridica di quell'aggeggio infernale che è WhatsApp
Le chat sono dappertutto, non ci sono più fascicoli di giudizio che non prevedano almeno uno screenshot tra i mezzi di prova. Tutto quello che scrivi a chiunque potrà essere usato contro di te in tribunale
Poveri fessi, parlo di noi. Il mondo che abitiamo ci sovrasta, si fa le regole da solo, ci prende a sberle. Pure la legge si è liquefatta e segue il flusso. Il Tribunale di Catanzaro (provv. n. 1620/2025) ha stabilito che anche gli accordi a latere tra coniugi – cioè quelli presi via WhatsApp, senza sigilli da procedura ufficiale – possono avere valore legale. Nel caso concreto, lui-ex-marito si sarebbe accollato il mutuo, lei-ex-moglie avrebbe rinunciato al mantenimento. La novità (non troppo nuova) è che la promessa scritta su WhatsApp ha pesato come un contratto, tanto da rovesciare un decreto ingiuntivo. Pare che ci svegliamo adesso dal sonno, il processo di erosione dura ormai da una decina d’anni, le chat Whatsapp sono dappertutto, non ci sono più fascicoli di giudizio che non prevedano almeno uno screenshot tra i mezzi di prova.
Ripercorriamo – un poco nostalgici – la storia di WhatsApp, aggeggio infernale. Prima arrivarono i lunghi online non oscurabili e il sottoprodotto fu spiacevolissimo: ci si incollò addosso la cultura del sospetto. E un nuovo tipo dubbio che non avevamo mai sperimentato: che ci fa (lui/lei) tutto quel tempo su WhatsApp? Saranno gli amici della palestra? Per nascondere a sé stessi la verità: oltre i 25 minuti online, è amante. In quella amplificazione del controllo germinava l’impero della sfiducia nelle relazioni: siamo sempre stati tutti traditi, ma nell’oscurità novecentesca. Era meglio. E’ lì, attesterà la sociologia del futuro, che si affacciò la fine della coppia e la crisi irreversibile dell’amore. Poi vennero le chat dei genitori. Ore 6.50 di mattina, Paola mamma di Luca: “Ciao, scusate l’ora! Domani c’è l’ultima riunione maestre della recita di Natale, ci sono aspetti che non mi sono chiari nei ruoli assegnati! Che ne pensate?”
Amanti e genitori petulanti. Così si stava su WhatsApp quando era, tutto sommato, ancora Disneyland. Poi si è messa di mezzo pure la legge, che arriva per ultima ma arriva sempre. Ora WhatsApp è mezzo riconosciuto anche nei tribunali. Si comincia da lontano, sentenza n. 301 del 12/08/2019, Tribunale di Gorizia: “Hanno valore probatorio i messaggi inviati via WhatsApp”. E ancora prima la Cassazione aveva detto sì agli mms per le immagini, come elementi di prova (n. 9884/05). Che voleva dire? Niente di buono. Tutto quello che scrivi a chiunque potrà essere usato contro di te in tribunale. Oggi per esempio è efficace a tutti gli effetti di legge il licenziamento comunicato via chat: “Il recesso intimato a mezzo WhatsApp appare assolvere l’onere della forma scritta, allorché parte ricorrente abbia con certezza imputato al datore di lavoro il documento informatico”, si dice. Doppia spunta blu, e il licenziamento è valido ed efficace.
Poi fu colpito anche il passatempo liberatorio più amato dagli impiegati: il pettegolezzo. Che imprudentemente è stato spostato dalla macchinetta del caffè al gruppo segreto dileggio-e-sfoghi. Ai lavoratori negli ultimi tempi va malissimo, è meglio tenere la frustrazione per sé, il nemico è ovunque, online: il Tribunale di Milano (sent. del 30/05/2017) ha ritenuto giusta causa di licenziamento l’aver creato un gruppo su WhatsApp tra colleghi destinato agli insulti al capoufficio. “Il lavoratore ha intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile di lavoro, da lui apostrofato con epiteti palesemente e pacificamente offensivi e denigratori, sicuramente idonei a sminuirne la credibilità e autorevolezza”.
Ci siamo preoccupati per anni del capitalismo della sorveglianza, “i nostri dati! I nostri dati!” e non sappiamo fare manco i guardiani delle parole, le nostre. Speriamo che i processi siano presto affidati alle intelligenze artificiali, o toccherà ai giudici leggere chilometri di chat, sticker e recriminazioni economiche. Cosa di quello che scrivo può diventare titolo esecutivo? Tutto. “Mi hai detto che mi regalavi la macchina”, “era un vocale ironico”. Chi chiami, per la prova, il perito fonico? Il pollice alzato vale firma digitale, il cuore rosso è acquiescenza tacita? Bello questo cineforum digitale, in tribunale faremo semiologia delle notifiche, sicuro ci si diverte. Sarà tutto interpretabile, tutto reversibile, tutto rinfacciabile?
Il passaggio cruciale è che la solennità è evaporata dappertutto, il che poteva essere anche una buona notizia, se non fosse per il corollario tragico che si porta appresso il postulato: così l’effimero diventa definitivo. Voglio mandare una lettera a Calvino in una capsula del tempo, ci sarà scritto: “Hai visto, Italo, tu che ti preoccupavi dell’antilingua e del burocratese, siamo riusciti a fare peggio”. Il consiglio da avvocato senza spese per il destinatario è sempre lo stesso: nel dubbio, meglio a voce (e coi telefoni in un’altra stanza, perché ormai pure i chierichetti ti registrano).