La cantante Lydia Night con il logo di YouTube al Coachella 2025 (foto Getty)

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Vent'anni di YouTube, la tv fai da te

Giulio Silvano

Dai 19 secondi di un ragazzo allo zoo alla nuova televisione globale, tra dilettanti diventati star e un algoritmo che detta il palinsesto del mondo e che oggi tiene a galla il piccolo schermo

È iniziato tutto con degli elefanti. Quello che oggi è il secondo sito più visitato al mondo – dopo Google, che lo possiede – ha avuto inizio con una gita allo zoo. Nella primavera del 2005 il venticinquenne Jawed Karim ha postato online un video di 19 secondi intitolato: “Io allo zoo”. E’ il primo video di Youtube. A distanza di due decenni ogni giorno ne vengono caricati sul sito circa 20 milioni. “La cosa figa di questi tizi”, dice Karim con la giacca a vento allo zoo di San Diego, “è che hanno delle proboscidi veramente lunghe, e questo è tutto quello che c’è da dire”. Era un’era, quella del primo video sulla piattaforma, che sembra lontanissima. Un’era che è stata anche mitizzata, quando si parla del “primo” internet. Un internet libero, amatoriale. Uno spazio che già di per sé era assurdo che esistesse, dove molti immaginavano che ci potesse essere una partecipazione dal basso per stare tutti bene, un passaggio dall’intimo al potenzialmente virale senza bisogno di filtri, con l’unico scopo del divertimento. Una persona poteva mettere i propri filmini delle vacanze, di una gita, di una buffonata, e questi potevano essere visibili ovunque nel mondo, riproducibili da chiunque avesse accesso a internet. Oggi quell’epoca, in cui l’idea della condivisione totale sorprendeva, sembra lontanissima, ma era solo vent’anni fa.

 

La reazione alla notizia della nascita di YouTube fu: “Posso farlo anch’io!”. Il trampolino sotto steroidi dei quindici minuti warholiani di celebrità

 

La reazione alla notizia della nascita di YouTube non fu: “A chi interessano 19 secondi di un ragazzo sconosciuto che commenta grossolanamente l’anatomia degli elefanti?”. La reazione è stata invece: “Wow, lo posso fare anch’io”. Poi certo, sono arrivate le aziende, il business. E poi i social, che hanno videizzato tutto con i reel, e anche i quotidiani, come il New York Times, che ormai punta sui video per aumentare lo scrolling. Ma inizialmente YouTube era l’illusorio trampolino sotto steoroidi dei quindici minuti warholiani di celebrità. Potevi mandare al mondo il tuo self-tape, il tuo video-provino al mondo.

 

Tre ex dipendenti di PayPal, in un garage della Silicon Valley, provano a brandizzarlo come sito di incontri. Ma la cosa non decolla

 

YouTube è una rivoluzione, dentro a quella più grande del tech. Come molte delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo mezzo secolo, anche questa è iniziata in un garage. Tre ex dipendenti under-trenta di PayPal, tra cui Karim, in un garage della Silicon Valley ragionano su qualche nuova idea, e decidono di puntare sul rendere semplice condividere video con gli amici. Inizialmente la cosa non va benissimo, e quindi decidono di brandizzarlo come sito di incontri: mettono online degli annunci in modo che “ragazze attraenti” inviino delle loro clip di presentazione, così da farle girare online. Anche il Facebook delle origini nasce con uno spirito simile, cioè per votare le ragazze di Harvard in base all’aspetto.

Ma per i tre ragazzi nel garage la cosa non decolla. Ha invece un successo da un giorno all’altro quando la condivisione di video personali diventa semplice, con un click, cioè quando la gente capisce che il tuo contenuto può viaggiare a prescindere dal tuo controllo. Non è più uno strumento costruito specificatamente per inviare un video a qualcuno, ma per lanciarlo nell’aire, per appenderlo nell’estesissima bacheca del mondo digitale, in modo che chiunque la possa vedere. “Non avremmo mai pensato che la gente avrebbe caricato contenuti dicendo al mondo: venite a vedere la mia roba”, ha detto a dieci anni dalla fondazione di YouTube uno dei tre fondatori, Steve Chen. Video di matrimoni, dei propri figli che giocano, di cani che corrono, di discese in snowboard, di studenti che cazzeggiano. I primi video sono l’apice del dilettantismo. Nel loro spirito si percepisce anche il desiderio di condividere certe emozioni, oltre che di giocare con questo nuovo gadget che permette di distruggere ogni barriera. Come un globale “Paperissima Sprint”, i video che diventano virali sono quelli di bambini a cui viene morso il dito, di una donna che cade pestando l’uva a una vendemmia, di ragazzini che tornano dal dentista e che delirano in macchina sotto l’effetto dell’anestetico, di uno studentello goffo che brandisce una mazza da golf come fosse una spada laser di Star Wars, di un giornalista in tv che fa una gaffe. A breve questi video vengono anche ripresi dalla televisione, vengono riprodotti e parodizzati nei programmi comici e nelle serie, entrano a far parte della cultura non solo di internet, escono dal device. Gli amici si ritrovano in casa il pomeriggio dicendo: “Ti faccio vedere questo video divertentissimo su YouTube”. Prima dello scroll or die sull’autobus, tra Instagram e TikTok, ci si ritrovava in qualche cameretta a guardare video divertenti. In una puntata di “The Office” Michael Scott scopre YouTube e non lavora per tre giorni. 


Nel 2006 la rivista Time sceglie come persona dell’anno non un politico, non un capo di stato, non un Papa. Time magazine sceglie “te”. Sulla copertina, sopra uno schermo di un personal computer, c’è scritto “You”. La copertina è riflettente, così puoi specchiarti ed essere tu la persona dell’anno. Tutto grazie a YouTube. “Sì, proprio tu”, si legge sulla copertina: “Tu controlli l’età dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo”. I due contendenti per Time erano originariamente il presidente del Venezuela Hugo Chávez e quello dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad. Poi viene selezionato “You”, e per molti è solo marketing per combattere il declino delle riviste. Nell’editoriale che spiega la scelta, il giornalista Lev Grossman cita la frase di Thomas Carlyle, “La storia non è altro che l’insieme delle biografie di grandi uomini”, e la ribalta. Perché, secondo Grossman, il 2006 dimostra che la nostra è una storia di “comunità e collaborazione a un livello mai visto prima. Riguarda il compendio cosmico di Wikipedia, il network della gente che è YouTube e la metropolis di internet che è MySpace”. I Kennedy e i Khrushchev sono sostituiti dal tuo riflesso. E i social dovevano ancora arrivare. Il 2006 è anche l’anno in cui Google, per poco più di un miliardo e mezzo di dollari, acquista la piattaforma di condivisione video.


YouTube in breve sostituisce i cd – e c’è gente che ancora oggi lo usa come unica fonte per la musica. I trailer dei film arrivano lì. E poi anche gli spezzoni, inizialmente pirata, e le clip che nei primi tempi vengono ritirate dai network – ci sono anche delle cause – poi vengono piazzate dalle stesse case di produzione quando si capisce che è pubblicità gratis. Che non si può sfuggire al tubo. In questi vent’anni YouTube ha fatto un grosso passo in avanti quando è uscito dall’amatorialità e si è trasformato in qualcosa di diverso. Poco alla volta tutti i brand hanno iniziato ad aprirsi un canale sulla piattaforma. Le etichette discografiche hanno iniziato a caricare i videoclip. “Gangnam style” è stato il primo video a raggiungere un miliardo di visualizzazioni. Poi certo, si torna al dilettantesco per farlo diventare mestiere. Arrivano gli Asmr, sedativi video-acustici, con gente che sussurra, gratta o taglia cose, che fanno rilassare. Arrivano gli obesi che mangiano polli interi. Nascono community, ci si scambia opinioni nei commenti. Arrivano i video cospirazionisti, le lezioni universitarie, Barbero, i Ted Talk. Vengono caricati vecchi spezzoni di programmi degli anni 60, del “Maurizio Costanzo Show”, di “Apostrophes” e degli interrogatori del mostro di Firenze. Arrivano i video per aiutarti ad allacciarti la cravatta, a salvare un pdf o a fare la manovra di Heimlich. Arrivano i video per imparare lo yoga, per la meditazione, per difendere Britney Spears. Arriva l’unboxing. Arrivano i cartoni animati di quattro minuti e le canzoncine sceme per bambini e “Baby Shark” e canali di intrattenimento infantile che le tate usano per far star buoni i neonati o che i genitori irresponsabili sfruttano per star tranquilli al ristorante, appoggiando l’iPhone sulla bottiglia d’olio. E soprattutto arrivano gli youtuber, parola entrata anche nei principali dizionari anglosassoni. Che lavoro fai? Lo youtuber.

 

Oggi MrBeast, lo youtuber più seguito, ha 388 milioni di iscritti sul suo canale. Ha mollato l’università e ha un patrimonio di mezzo miliardo di dollari

 

Oggi MrBeast, il più seguito di tutti, ha 388 milioni di iscritti al suo canale, e posta elaboratissimi video di cacce al tesoro milionarie, ricrea Squid Game senza morti veri. La produzione di questi contenuti diventa gigante, con budget da studio hollywoodiano, i singoli “creator” diventano aziende. MrBeast, ventiseienne del Kansas, molla l’università per fare video, e oggi ha un patrimonio di mezzo miliardo di dollari. Come sempre, per ogni MrBeast ci sono decine di migliaia di falliti, ma i MrBeast danno l’illusione che tutti possano farcela, perché non serve più essere Buster Keaton per andare davanti alla telecamera. La terza youtuber più seguita è una bambina nata nel 2014 che gioca col papà. Guadagna milioni tra sponsorship e branded content. C’è chi organizza challenge e chi commenta videogiochi, e l’algoritmo come sempre premia i premiati. 


Così come Facebook da buco della serratura per vedere cosa facessero i compagni del liceo è diventato strumento per ribaltare gli esiti elettorali delle nazioni democratiche, YouTube in un processo simile è diventata la nuova tv. Lo dicono i numeri: con 54,2 miliardi di dollari di guadagni al 2024 YouTube è la seconda media company del mondo dopo Disney. Ma si pensa che a breve la possa raggiungere, e superare. Anche le reti televisive caricano ormai da tempo, a mo’ di clip, i propri contenuti per aumentarne il consumo e potenziale viralità: così guardiamo solo cinque minuti di spezzoni dei talk-show e delle ospitate Cnn. Una puntata di “Otto e mezzo” si consuma a bocconi, di “Dimartedì” si guardano online solo i pezzi in cui litigano. E se prima c’era qualche Enrico Ghezzi che blobbizzava i momenti migliori ora sono le stesse reti a farlo, a vendere solo la crème – spesso, appunto, le zuffe, o le affermazioni iperboliche, trasformando ancora la tv. Se deve diventare virale, tanto vale che ci guadagni io, rete televisiva, a suon di visualizzazioni. Ci sono programmi, come “Belve”, che sembrano fatti per finire spezzettati sui reel. E c’è chi è riuscito ad arrivare in Rai o a Mediaset grazie a YouTube, come Paolo Ruffini – non a “Ovosodo” di Virzì o alle pubblicità Kinder, ma è a “Il nido del cuculo” (doppiaggi esilaranti in livornese), a cui deve il vero lancio – o come Frank Matano, che è arrivato a “Le Iene” grazie a video in cui scoreggiava sulla gente a parco Sempione. Oggi l’obiettivo sembra più passare da Mediaset a YouTube.


Ma in America si sta andando ancora oltre. Ci sono giornalisti famosi che hanno abbandonato contratti da re nei “giornaloni” per farsi il loro personale canale YouTube, come Tara Palmeri. Anche Tucker Carlson, ex volto di Fox News, ora ha la sua web-tv dove invita Viktor Orbàn e i ministri di Putin. L’informatico americano Nicholas Negroponte diceva che se Kennedy è stato eletto grazie alla televisione, Obama è stato eletto grazie a YouTube. Oggi anche i podcast, che nascono senza il video, diventano su YouTube quasi dei programmi televisivi. Il video si è mangiato anche il prodotto nato per essere solo audio. Se prima i podcaster potevano non pettinarsi o stare in pigiama, ora spesso sono costretti a conciarsi come se andassero in uno studio. L’ecosistema mediatico è più visivo che mai. Nell’era dell’individuo il singolo attira di più della testata.


Se una volta la differenza tra televisione e YouTube era plateale, oggi non è più così – e infatti a interrompere gli sketch di SNL o spezzoni de “L’aria che tira”, è arrivata anche la pubblicità. Ed è arrivato anche l’upgrade, con tanto di YouTube premium, come facevano le piattaforme streaming, come il Tele+ di una volta, come Sky. Se la televisione tradizionale è retta dai reality e dai boomer e dagli ottuagenari e da “Amici” e da “Un posto al sole”, la tv degli under 40 passa da Netflix, certo, ma anche da YouTube. E infatti ora YouTube lo troviamo già installato su tutte le smart tv, come fosse un canale, appare anche sul telecomando col suo logo. Ogni giorno, dicono i numeri, si guardano un miliardo di ore di YouTube sulle televisioni smart. Negli Stati Uniti le persone guardano sulla propria tv più ore di YouTube che non di Prime video o Netflix o Disney+. L’ha detto anche il Ceo Neal Mohan: “YouTube è la nuova televisione”. Lo dimostra anche il fatto che un gigante come Disney abbia deciso di caricare lì i primi tre episodi del nuovo, ennesimo, spin-off di Star Wars: “Andor”. E così come gli editori vogliono trasformare in autori gli influencer di Instagram, allo stesso modo sono vari i programmi creati da youtuber arrivati su piattaforme streaming o anche per la Bbc.

 

Esistono scout dei grandi network statunitensi e britannici che passano le giornate a cercare su YouTube qualcuno da tirare dentro gli studi

 

Esistono scout dei grandi network statunitensi e britannici che passano le giornate a cercare su YouTube qualcuno da tirare dentro gli studi. Il cannibalismo diventa prassi per evitare di essere divorati dal web. Allo stesso tempo i volti tv vanno ospiti dagli youtuber. Il comico Bo Burnham ha iniziato con YouTube e poi, subito dopo, ha vinto tre Emmy per uno speciale di Netflix sul Covid. Dino Risi diceva che “la tv vive di cinema, ma il cinema muore di tv”, oggi la tv per stare a galla si affida a chi ha iniziato con una webcam nella cameretta, e il confine tra quella che chiamavamo televisione e YouTube sembra svanire. Ma è dura immaginare che un “Mad Men”, un “True Detective” o un “Seinfeld” escano fuori dallo stesso sito iniziato con un video di 19 secondi sugli elefanti allo zoo di San Diego.

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